Gli
dissero che in quel bar
il
caffè lo facevano bene
ma
quando l’assaggiò ne restò disgustato
per
un buon napoletano questa era
un’offesa
troppo grande, ne ordinò
subito
un altro
corretto
stavolta… all’Arsenico.
La ragazza stava legata
alla sedia. In mutante e reggiseno, i vestiti appallottolati per terra, le sue
scarpe, la borsa. Non erano sparpagliati, ma riposti tutti vicini, con un certo
criterio.
Era molto bella, la
pelle scura, gli occhi verdi, quasi creola. Era tranquilla, non aveva pianto.
Quando arrivò restò a
guardarla per qualche secondo, un po’ si stupì nel vederla così calma. Era
arrabbiata, con lo sguardo lo seguiva in ogni suo movimento, quasi fosse lui ad
essere legato come un animale. Un uomo sui cinquanta, vestito in maniera
elegante, i capelli completamente grigi, con la riga di lato, corti sotto, il
ciuffo sistemato con la brillantina. Ricordava vagamente Billy Bob Thornton.
Diede un’occhiata all’orologio
da polso d’oro. Erano le sei e un quarto di sera. Non era ancora buio, per quel
che ne sapeva l’uomo la ragazza era lì da circa un’ora. Lui notò subito che la
pelle sulle caviglie era priva di quel naturale rossore di chi avesse cercato
di slegarsi, non si era agitata, era rimasta ferma in quella posizione per
tutto il tempo. Lei dal canto suo vide che l’uomo distinto che si aggirava nel
capannone aveva solo otto dita, cinque nella mano sinistra e tre nella destra.
Mignolo e anulare appartenevano ad un’altra vita, era passato abbastanza tempo
perché lui ci si potesse abituare e non provasse nemmeno a nascondere la mano
stracciata.
Si avvicinò al tavolino
dove era appoggiato un bicchierino di plastica pieno di caffè. Lo bevve, era
tiepido e brutto così lo sputò sul pavimento polveroso in una smorfia di
disgusto. Poi lasciò cadere il bicchierino e lo schiacciò con la scarpa bianca,
lucida.
Il caffè di merda era
una cosa che lo mandava in bestia. Prese lentamente il cellulare e compose un
numero. Disse qualcosa che lei non afferrò, capì solo un nome, un nome che
poteva essere di un bar o un ristorante, poi lo vide rimettersi il telefono in
tasca e la cosa finì lì.
Il capannone era vicino
al porto, si potevano sentire i rumori delle barche in procinto di attraccare.
Lei restava imbavagliata, i polsi legati dietro allo schienale. Lo fissava. Non
aveva previsto un atteggiamento simile, era abituato ai pianti, alle urla
soffocate, agli svenimenti, ma questa donna, sulla trentina, sembrava un
samurai. Non era rassegnata, la sua era una sfida.
L’uomo prese una sedia
e la fece roteare fino a starle davanti. Vi si sedette all’americana, tenendo
le braccia appollaiate sullo schienale. C’era nell’aria una sensazione di calma,
come se ci fosse tutto il tempo. Non c’era niente che non andava. Lui adesso
stava solo aspettando che quel qualcuno con cui aveva parlato facesse quanto
gli era stato chiesto. Nel tenerla davanti, così vicino, si rese conto
compiutamente della sua particolare bellezza. I capelli neri le ricadevano morbidamente
sul viso spigoloso, il naso pronunciato e simmetrico, gli occhi sottili e verdi
come led al buio. Il seno era piccolo,
la pancia piatta.
Lui era un tipo calmo,
ma il caffè di merda era sempre stata una cosa capace di farlo andare in bestia.
Non chiedeva altro che un buon caffè, non era molto in fondo.
Mentre aspettava
riprese il cellulare e si mise a fare una partita a puzzle bubble. Non era
particolarmente abile ma quel giochino lo rilassava e a lei sembrò che lui
sorridesse mentre metteva in fila un paio di mosse buone.
La cravatta grigia di
lana, il vestito scuro, un bell’uomo, distinto, poteva essere in quel capanno
come in una banca, in nessuno dei due posti l’avresti considerato una nota
stonata.
A un certo punto
ricevette una breve telefonata, con calma la rifiutò, poi si alzò dalla sedia e
si diresse al grande portellone di ferro scorrevole. Un ragazzino con un
maglione verde, sui diciotto anni, forse anche meno, teneva tra le mani un
altro bicchierino di caffè, una bustina di zucchero e un bastoncino di plastica
trasparente.
Gli fece cenno di
poggiarlo sul tavolino e si sbrigò a chiudere il portellone. Mentre il
ragazzino poggiava il caffè sul tavolino l’uomo distinto tirò fuori una pistola
dalla fondina sotto l’ascella, come usano fare i poliziotti. Il ragazzino era
ancora di spalle e lui attese con calma che ponesse il bicchierino sul tavolo,
tenendolo sotto tiro.
«Ehi» disse poi quasi sibilando, il ragazzino
si girò e premette il grilletto. Non gli sparò in faccia perché esile com’era
sarebbe potuto cadere all’indietro, rovinare sul tavolo e rovesciargli il caffè.
Lo colpì allo stomaco, così che si accasciasse emettendo uno strano suono. Lo
spinse di lato con un piede, poi gli sparò di nuovo, stavolta per ucciderlo. Nonostante
il rumore assordante che ancora riverberava nell’aria, la donna non sembrava
impaurita, chiuse gli occhi per sole due vote e pochi istanti, ma fu solo una
questione di riflessi. Lui ne fu meravigliato. Poi prese il bicchierino nuovo e
lo avvicinò al naso inalandone il profumo.
Mentre lo teneva nella
sinistra, con la mano monca si frugò nella tasca tirandone fuori una fialetta
di vetro. Facendo leva con il pollice la ruppe e versò il liquido nel caffè. Agitò
il tutto meglio che poteva, poi lo bevve in un sorso solo come se fosse rum, un
cicchetto, in un bar alla moda. Lui si girò verso di lei che non aveva mai
smesso di osservare, le sorrise e atteggiando la mano monca a forma di pistola
finse di spararle, poi cadde goffamente sul pavimento.
Aldo Consoli.