lunedì 22 aprile 2013

Suicidi Squisiti N°15. (Una donna nuda legata a una sedia. Un uomo con otto dita. Un ragazzino e le pistole...)



Gli dissero che in quel bar
il caffè lo facevano bene
ma quando l’assaggiò ne restò disgustato
per un buon napoletano questa era
un’offesa troppo grande, ne ordinò
subito un altro
corretto stavolta… all’Arsenico.



La ragazza stava legata alla sedia. In mutante e reggiseno, i vestiti appallottolati per terra, le sue scarpe, la borsa. Non erano sparpagliati, ma riposti tutti vicini, con un certo criterio.
Era molto bella, la pelle scura, gli occhi verdi, quasi creola. Era tranquilla, non aveva pianto.
Quando arrivò restò a guardarla per qualche secondo, un po’ si stupì nel vederla così calma. Era arrabbiata, con lo sguardo lo seguiva in ogni suo movimento, quasi fosse lui ad essere legato come un animale. Un uomo sui cinquanta, vestito in maniera elegante, i capelli completamente grigi, con la riga di lato, corti sotto, il ciuffo sistemato con la brillantina. Ricordava vagamente Billy Bob Thornton.
Diede un’occhiata all’orologio da polso d’oro. Erano le sei e un quarto di sera. Non era ancora buio, per quel che ne sapeva l’uomo la ragazza era lì da circa un’ora. Lui notò subito che la pelle sulle caviglie era priva di quel naturale rossore di chi avesse cercato di slegarsi, non si era agitata, era rimasta ferma in quella posizione per tutto il tempo. Lei dal canto suo vide che l’uomo distinto che si aggirava nel capannone aveva solo otto dita, cinque nella mano sinistra e tre nella destra. Mignolo e anulare appartenevano ad un’altra vita, era passato abbastanza tempo perché lui ci si potesse abituare e non provasse nemmeno a nascondere la mano stracciata.
Si avvicinò al tavolino dove era appoggiato un bicchierino di plastica pieno di caffè. Lo bevve, era tiepido e brutto così lo sputò sul pavimento polveroso in una smorfia di disgusto. Poi lasciò cadere il bicchierino e lo schiacciò con la scarpa bianca, lucida.
Il caffè di merda era una cosa che lo mandava in bestia. Prese lentamente il cellulare e compose un numero. Disse qualcosa che lei non afferrò, capì solo un nome, un nome che poteva essere di un bar o un ristorante, poi lo vide rimettersi il telefono in tasca e la cosa finì lì.
Il capannone era vicino al porto, si potevano sentire i rumori delle barche in procinto di attraccare. Lei restava imbavagliata, i polsi legati dietro allo schienale. Lo fissava. Non aveva previsto un atteggiamento simile, era abituato ai pianti, alle urla soffocate, agli svenimenti, ma questa donna, sulla trentina, sembrava un samurai. Non era rassegnata, la sua era una sfida.
L’uomo prese una sedia e la fece roteare fino a starle davanti. Vi si sedette all’americana, tenendo le braccia appollaiate sullo schienale. C’era nell’aria una sensazione di calma, come se ci fosse tutto il tempo. Non c’era niente che non andava. Lui adesso stava solo aspettando che quel qualcuno con cui aveva parlato facesse quanto gli era stato chiesto. Nel tenerla davanti, così vicino, si rese conto compiutamente della sua particolare bellezza. I capelli neri le ricadevano morbidamente sul viso spigoloso, il naso pronunciato e simmetrico, gli occhi sottili e verdi come led al buio.  Il seno era piccolo, la pancia piatta.
Lui era un tipo calmo, ma il caffè di merda era sempre stata una cosa capace di farlo andare in bestia. Non chiedeva altro che un buon caffè, non era molto in fondo.
Mentre aspettava riprese il cellulare e si mise a fare una partita a puzzle bubble. Non era particolarmente abile ma quel giochino lo rilassava e a lei sembrò che lui sorridesse mentre metteva in fila un paio di mosse buone.
La cravatta grigia di lana, il vestito scuro, un bell’uomo, distinto, poteva essere in quel capanno come in una banca, in nessuno dei due posti l’avresti considerato una nota stonata.
A un certo punto ricevette una breve telefonata, con calma la rifiutò, poi si alzò dalla sedia e si diresse al grande portellone di ferro scorrevole. Un ragazzino con un maglione verde, sui diciotto anni, forse anche meno, teneva tra le mani un altro bicchierino di caffè, una bustina di zucchero e un bastoncino di plastica trasparente.
Gli fece cenno di poggiarlo sul tavolino e si sbrigò a chiudere il portellone. Mentre il ragazzino poggiava il caffè sul tavolino l’uomo distinto tirò fuori una pistola dalla fondina sotto l’ascella, come usano fare i poliziotti. Il ragazzino era ancora di spalle e lui attese con calma che ponesse il bicchierino sul tavolo, tenendolo sotto tiro.
«Ehi» disse poi quasi sibilando, il ragazzino si girò e premette il grilletto. Non gli sparò in faccia perché esile com’era sarebbe potuto cadere all’indietro, rovinare sul tavolo e rovesciargli il caffè. Lo colpì allo stomaco, così che si accasciasse emettendo uno strano suono. Lo spinse di lato con un piede, poi gli sparò di nuovo, stavolta per ucciderlo. Nonostante il rumore assordante che ancora riverberava nell’aria, la donna non sembrava impaurita, chiuse gli occhi per sole due vote e pochi istanti, ma fu solo una questione di riflessi. Lui ne fu meravigliato. Poi prese il bicchierino nuovo e lo avvicinò al naso inalandone il profumo.
Mentre lo teneva nella sinistra, con la mano monca si frugò nella tasca tirandone fuori una fialetta di vetro. Facendo leva con il pollice la ruppe e versò il liquido nel caffè. Agitò il tutto meglio che poteva, poi lo bevve in un sorso solo come se fosse rum, un cicchetto, in un bar alla moda. Lui si girò verso di lei che non aveva mai smesso di osservare, le sorrise e atteggiando la mano monca a forma di pistola finse di spararle, poi cadde goffamente sul pavimento.   

Aldo Consoli.

giovedì 18 aprile 2013

Suicidi Squisiti n°14 (Una morte pulita...)


Aveva una fobia per i bagni sporchi
figurarsi trovarne uno all’ospedale
dove si era andata a curare una cisti.
Non resistette, aprì la finestra
e volò giù dal terzo piano.



Negli ultimi tre anni era entrata e uscita dall’ospedale così tante volte che ormai gli infermieri la salutavano per nome. Non era una cosa che le faceva piacere, che la faceva sentire esclusiva. Gli ospedali non sono resort di lusso in cui essere riconosciuti può dare alla testa, un ospedale è un ospedale, non c’è da fare tante storie.
Tre tentati suicidi, nessuno andato a buon fine, le visite psichiatriche  e adesso quella piccola cisti sullo sterno.
Per una volta vi era entrata per qualcosa che chiunque avrebbe potuto avere e avrebbe voluto un grosso cartello sulla testa con su scritto: È SOLO UNA CISTI! Perché non le era piaciuta la faccia che un infermiere aveva fatto nel vederla arrivare, che sembrava dire: sei sempre qui e non muori mai.
 Da quando uno strano senso di sporco si era impossessata di lei la sua vita era compromessa. Ormai ne era come ossessionata.
C’era stata questa pubblicità in cui un prodotto per la casa puliva il pavimento e si vedeva questa animazione in cui brandelli di cose marroni grosse come fagioli scivolavano via, sciacquate dal liquido verde. Se ne stava davanti alla televisione una sera e quell’immagine la catapultò in un vortice da cui non era più riuscita ad uscire. Era come se vedesse quelle piccole sanguisughe marroni ovunque si posassero i suoi occhi.  Quei minuscoli pezzi di merda piano piano le avevano impedito di toccare qualunque cosa. Tutto era venuto a galla per sottrazione. Aveva cominciato lentamente a non fare più delle cose. La prima era stato andare in giro scalza per casa. Il che le era sempre piaciuto, fin da bambina, nonostante gli estenuanti rimproveri di sua madre, eppure adesso sarebbe stata felice di vedere che non ci riusciva.
In breve tempo era finita a lavare il pavimento con uno spazzolino per dentiere dalle setole dure, come aveva visto fare nei film americani, con i soldati in punizione a pulire le latrine. Mentre se ne stava stesa sul pavimento le era venuto da vomitare, ma aveva continuato, come una missione. Successivamente aveva sentito la necessità di mettersi dei guanti di plastica quando usciva di casa. Le mani le si erano screpolate diventando rosse a furia di lavarle con la candeggina.
Era come se tutto fosse contaminato e purulento.
Quella vita era diventata insopportabile così si era tagliata le vene. Quando all’ospedale videro il taglio orizzontale pensarono che fosse solo un avvertimento, per farsi notare, la verità è che non sapeva che il modo giusto fosse in verticale, tranciando la vena dal polso, a salire, verso l’omero.  Non esiste un manuale per suicidi, ma dovrebbero scriverlo, si disse.
Si ricordava che prima di mettere l’acqua nella vasca per stendersi e morire, l’aveva sterilizzata col fuoco. Vi aveva spruzzato l’alcool etilico e poi aveva acceso la fiamma. Sapeva che non avesse poi molto senso che fosse sporca o pulita se tanto ci doveva morire, ma era stato più forte di lei. E forse era vero, magari non era poi così convinta che quella volta avesse voluto farla finita.
Eppure non ce la faceva più a vivere una vita in cui persino l’aria le inondava i polmoni di germi. Aveva preso a respirare piano, evitando i respiri profondi. Sembrava avere l’asma, ma non l’aveva. Suo marito la esortava energicamente a smetterla con quelle fissazioni, lo mettevano a disagio, ma lui non capiva, era troppo stupido per rendersene conto.
Il secondo tentativo era stato con le pillole, ma dopo averne ingurgitate otto gli era venuto il pensiero che fossero sporche, si era immaginata la fabbrica e i topi che depositavano i loro piccoli escrementi sulle montagne di capsule ammassate; le era venuto il disgusto e aveva vomitato tutto. Prima che potessero farle effetto. La questione a un certo punto non era più vivere o morire, forse, ma non stare male, di quello aveva una paura fottuta.
La terza volta era stata quella più goffa di tutte e se ci pensava le venire persino da ridere. Si era messa un sacchetto di plastica sulla testa e aveva provato a soffocarsi, inutile dire che si era ritrovata a pensare a tutti quei germi sulla sua faccia e non era riuscita a finire il lavoro.
Se ci pensava ciò che le impediva di vivere le aveva salvato la vita per ben tre volte, e anche questa era una cosa che la faceva sorridere.
Vedeva con chiarezza la disperazione di suo marito, un uomo semplice, che faceva il metronotte, che si preoccupava per lei.
Le dispiaceva, non avrebbe voluto farlo soffrire, ma non poteva farci niente. Non riuscivano più nemmeno ad andare a letto insieme. Il solo contatto con un altro corpo la faceva stare male. Per lei persone e oggetti altro non erano che babilonie in cui miliardi di piccoli esseri putrescenti proliferavano e si moltiplicavano senza sosta.
 Negli ultimi tempi aveva sperato che si fosse trovato un’amante, che la lasciasse stare, tale era il punto cui era giunta, le condizioni della sua resa.
Nemmeno entrare in cura da uno psichiatra aveva funzionato. Il suo dottore era stato un uomo sulla cinquantina, gentile e distinto, che la faceva sentire ridicola tutte le volte che la guardava. Portava spessi occhiali fuori moda, con la montatura di corno da cui spuntavano nuvole grigie di sopracciglia così folte da farlo sembrare un grinch.
Un uomo che sarebbe stato difficile immaginarselo da piccolo, come se  fosse sempre stato così, nato uomo, cresciuto con la stessa montatura d’occhiali sulla faccia, solo più basso e con le bretelle.
Avevano parlato, a un certo punto sembrava persino funzionare, non si era tolta i guanti nemmeno una volta in sua presenza ma a casa aveva ricominciato a mangiare. In qualche modo era tornata in lei e in suo marito una certa speranza di guarigione, ma un giorno entrando nello studio lo aveva sorpreso con un dito nel naso che per la fretta aveva nascosto sotto alla scrivania. Per tutta la durata della seduta non fece altro che pensare a quella scrivania, alla parte sottostante e alle caccole. Così aveva deliberatamente cominciato a parlargli dei banchi di scuola, delle gomme attaccate sotto e a quanto le facessero schifo. Non tornò mai più, non poteva. Un altro tentativo fallito. A cambiare terapista nemmeno ci pensava, si era rassegnata.
Una notte aveva sognato di visitare Plutone, un posto così freddo che i batteri non si formavano nemmeno. Un posto in cui gli abitanti erano delle strane creature alte sessanta centimetri, con gli occhi grandi e neri, le bocche piccole e il corpo luminescente. Le loro case erano asettiche e sterili come sale operatorie, a forma di sfera, senza angoli in cui si sarebbe potuta formare la polvere, lo sporco e la muffa.
Quegli esseri erano gli unici a darle ragione, le avevano fatto capire che non era pazza, pazzi erano gli altri che non si rendevano conto in che stato immondo e infetto vivessero sulla terra. Al risveglio si era sentita triste e sola, i piccoli troll di Plutone l’avevano abbandonata. Quel sogno non si era più ripetuto ma era stato così vivido che per qualche giorno si era chiesta se non fosse stato tutto vero.
Adesso stava in ospedale, l’avevano operata, era andato tutto bene e quel giorno stesso l’avrebbero dimessa.
Era stata lontano da casa per trentasei ore e inorridiva all’idea di rimettere piede in casa sua. Chissà come gliel’avrebbe fatta trovare suo marito. Sapeva che non aveva spolverato nemmeno una volta, che non aveva lavato il bagno e non aveva sterilizzato le stoviglie. Andò in bagno e notò una piccola macchia marrone sul fondo del water, oltre l’acqua. Non ci aveva fatto caso prima, ma era lì. Doveva fare pipì ma non osava sedersi. Le veniva quasi da soffocare. Cercò di forzarsi ma era inutile. Non ce la faceva, stava per scoppiare. Farsela addosso sarebbe stato anche peggio.
Aprì la finestra, la strada era lontanissima, e da così lontano non riusciva a vederne lo sporco questa volta.


Aldo Consoli.

mercoledì 10 aprile 2013

Suicidi Squisiti N°13 (sono l'unica speranza di questo paese, solo che questo paese non lo sa...)



C’era molto traffico
ebbe tutto il tempo di collegare un tubo
alla marmitta
e farlo scivolare dal finestrino dell’abitacolo.





Imparai a diffidare dei bambini quando capii che erano i migliori amici del Gabibbo. E adesso ne avevo uno in arrivo. Come si fa a farsi piacere un enorme pomodoro rosso col papillon che parla genovese?
Che dice a tutti “TI SPACCO LA FACCIA!”Come Toro scatenato?
Avevo sempre immaginato di torturare un uomo legandolo a una sedia nel buio di un garage e costringerlo ad ascoltare un’intera compilation del Gabibbo.
“Mea… Mea…” dallo stereo
e il prigioniero “No! No! Basta ti prego, parleròòòò...”
Stavo cercando di distrarmi per non dover  pensare al fatto che sarò  padre senza averlo scelto: è capitato e nemmeno posso dire  bene come.  Adesso sono bloccato in tangenziale. In ritardo per l’ennesimo colloquio di lavoro. Forse la cosa peggiore che mi possa capitare è essere assunto. Anno dopo anno a invecchiare in un ufficio di merda, a fare fotocopie per un capo ottuso che a stento ha finito le medie. Mi ero immaginato un futuro tutto diverso, ma ci sono volte in cui è impossibile rimandare il ring con la maturità, quando ti dice “fatti sotto” con la guardia alta, un avversario enorme come Primo Carnera.
Sarei voluto partire, allontanarmi senza pensare  allo sguardo di lei con in mano il test di gravidanza che dice “e adesso?” E adesso non lo so… Vorrei che il mio sguardo non si perdesse nella scia di ogni singolo culo che passa, che quelle gambe non urlassero tutta la libertà che non potrò più avere.
Lo stereo trasmette orribili canzoni vuote come i jingle della coca-cola. Bloccato qui nel mese di agosto, in mezzo a gente che si prepara ad andare in vacanza. Gli abitacoli stracolmi di cose inutili mi raccontano una vita impossibile.
Mio padre è notaio. Passerà lo studio al suo miglior praticante.
Un giorno passerà presso quel civico per vedere sulla targa un nome diverso. Era stato di suo padre e poi il suo, quando nacqui non poteva immaginare che le cose sarebbero andate così. Non ha mai nascosto la sua delusione, avevo voluto studiare filosofia e adesso ero senza lavoro.  Volevo essere come Henry Levy: sono l’unica speranza per questo paese, solo che questo paese non lo sa.  
Sono tre quarti d’ora che sto bloccato. Le persone cominciano a scendere impazienti dalle macchine cercando con lo sguardo di capire che cosa, all’orizzonte, c’impedisce di scorrere. Alla fine scendo anch’io. Apro il cofano e tiro fuori una vecchia pompa da giardino. La marmitta è fredda e fisso il tubo con del nastro adesivo. Faccio tutto con calma e nessuno si cura di me. Faccio scorrere il tubo di gomma lungo la fiancata e lo blocco nel finestrino. Un bambino dalla macchina affianco mi guarda curioso. Suo padre ha cominciato a litigare con un altro automobilista. Sua madre urla al marito di smetterla, ma quei due come degli oranghi si sbracciano e non vogliono sapere altro che sfogare la propria frustrazione urlandosi contro. Intanto mi chiudo dentro e accendo la macchina. Per un attimo immagino di stare in uno di quei dirigibili alla Giulio Verne. Il Nautilus di ventimila leghe sotto i mari. O come il viaggio sulla luna di Méliès, sarebbe bello poter sconfiggere i propri nemici con un ombrello, vederli sparire in un innocuo scoppio di fumo bianco.  Sarebbe una romantica vita in bianco e nero, senza madri e padri, ma solo zii e cugini, come a Paperopoli.
La testa mi si fa leggera e ho il fiato corto. Il bambino della macchina affianco mi saluta, io lo saluto. È tutto finito, o almeno sta per finire. Mi dispiace Claudia, se tu non vuoi abortire, lo farò io, per tutti e due.

Aldo Consoli.

giovedì 4 aprile 2013

Suicidi Squisiti N°12. (Trans-finale.)



Viveva in un dualismo perpetuo
succube di una doppia personalità:
la più forte si era stancata di vivere.




Tienimi stretto
non abbandonarmi, anche se sei qui
costretta a restare
resta per davvero e non per assenza di scelta.
Abbiamo provato ad essere innamorati di quello che siamo
ma non ci siamo riusciti
ed è impossibile tenersi per mano quando sai che non ti puoi allontanare, senza poter scoprire quanta tenerezza si nasconde anche solo nella distanza.
Noi siamo due e io sono solo.
Qual è il posto che potresti trovare se sei un uomo e una donna in un corpo solo. È troppo facile pensarmi come uno che non si accetta, un uomo mancato, un uomo sbagliato, una mezza femmina, una donna che solo vuole emergere, una patologia, un’anomalia contro natura, come se io fossi stato creato in laboratorio, come se un grembo materno non mi abbia, per nove mesi, tenuto al caldo.
Non sono il figlio maschio che mio padre avrebbe voluto e nemmeno l’omosessuale che avrebbe potuto accettare.
Vorrei solo amare un uomo, avere un compagno, ma non ho potuto far tacere quella parte che voleva davvero essere sua moglie.
Osservare queste mani che sempre diranno cosa sono, potrei cambiare ogni singola parte del mio corpo ma queste mani diranno sempre chi sono e da dove vengo, la matrice di un prodotto etichettato come guasto, venduto sottocosto per chi avrebbe anche solo il coraggio di provare.
Sono la perversione di qualcuno
la serata brava
il segreto inconfessabile
la frivolezza
il pepe sul vostro rapporto soffocato dall’abitudine
sono il rischio che qualcuno vi scopra
e il motivo per cui secondo voi vi piace il cazzo ma non siete gay
io sono il patto con voi stessi
il venirvi incontro.
Arriva il momento in cui tutto è insopportabile e lei non ne può più. Dei due è sempre stata la più forte, è stata lei a spingermi su quel lettino, a dirmi che sarebbe andato tutto bene e a spendere tutti i nostri soldi. Di me resta perlopiù quella parte su cui verte ogni vostro interrogativo. Non accetterà mai di aver fallito. Non mi sente e io non parlo. Gli allarmi sono scattati e non posso scappare da questo incendio. Ha già assunto abbastanza veleno per tutti e due. È come se volesse proteggere suo figlio da questo mondo che non ci capirebbe mai. Vorrei solo che mi fotografaste e che ci fosse una canzone adatta, vorrei solo che questo fosse un momento da ricordare.

Aldo Consoli.