Mi
disse che le donne di Marrakech erano diverse da come uno se le immagina, molte
non hanno il burqa, la faccia scoperta, i bambini per mano, nei mercati
affollati. Mi parlava in lunghe lettere di scialli rossi, dei simboli nelle
piazze e delle proteste contro il governo di cui da noi non si parlava affatto.
Non ho mai capito cosa ci fosse finita a fare in Marocco e nemmeno trovò mai le
parole per dirlo. Ci sono cose che teniamo nascoste al mondo per il bene degli
altri o forse solo per paura che l’immagine di noi ne possa venire lesa. In ciò
che scriveva cercava solo di rincuorarmi, mentendo, che presto le avrebbero
rilasciato i documenti e che non c’era nulla da temere; ma io sapevo quanto si
sentisse avvilita e spaventata per via di quel silenzio ostinato che solo i
burocrati sanno esercitare.
Ingannava
le giornate bevendo tè tiepido sulla terrazza del consolato britannico in compagnia
di gatti silenziosi e dei suoi libri di psicoterapia. Il sole in Marocco,
diceva, sembrava bloccato in mezzo all’orizzonte, costantemente del colore
arancione.
Spesso
si faceva vedere anche il console britannico che si sedeva sempre a un tavolo
poco distante, dopo le ore di lavoro, con una bottiglia di Mescal messicano che
beveva fino a far emergere il verme in superficie, e lei che si chiedeva se
fosse un verme vero o di zucchero come aveva letto da qualche parte. Come tutti
quelli che si lasciano possedere dai rimpianti il console era di poche parole,
ma c’erano giorni in cui si sentiva evidentemente d’umore frivolo e raccontava
piccole storielle ebree come quella che dice che persino un orologio fermo dice
l’ora esatta due volte al giorno…
Anna
diceva che anche quando provava ad essere spiritoso una vena troppo pesante e ingombrante
s’impadroniva della sua voce. Per qualche ragione che trovava ingiusta era
finito a rappresentare il suo paese a Marrakech.
Dialogando
con se stesso ad alta voce una volta il console disse: «certe punizioni sono enormi, più grandi di qualsiasi cosa di male si sia potuto fare. A volte si
commettono certo degli errori, i posti sbagliati, le persone sbagliate, ma
nessuno dovrebbe fare quello che non vuole fare…»
Disse
poi che si sentiva come Ponzio Pilato, nella polvere, esiliato, lontano dalla
sua gente e da quello che poteva capire, in Galilea.
Perché
si sostanzia di distanza e disagio,
l’esilio può assumere innumerevoli forme e in qualche modo mi pareva che tutti
noi vi prendessimo parte pur restando fermi, magari in patria, nelle nostre
piccole stanze. Non c’era più Stato e poche cose davvero grandi a cui ci si
potesse affezionare, il che creava una carenza amara molto simile alla
rassegnazione. Avevo un amico Balcano in quel periodo che stava cercando di
organizzare una specie di resistenza e per me che preferivo starne alla larga
non aveva che sguardi di rimprovero. Mi sembrava di essere distante dalle
ragioni di tutti e camminavo per le strade a Novembre come il vento che
cercando casa soffia tra i palazzi. La logica da sola non riesce mai a generare
il sentimento.
Tutto
l’esilio per me era lei bloccata a Marrakech, aveva dimostrato di avere molta
forza e io non abbastanza. Non c’era mai stata vita che non fosse la mia vita
stessa e non trovavo senso nella collettivizzazione ma questo il mio amico
proprio non riusciva a capirlo.
Per
lui era solo una questione di educazione, e forse era vero, chi lo sa, come se
non fosse tutta una questione di educazione, di sangue e di coraggio, o di
mancanza di esso il più delle volte.
Avrei
voluto che Anna tornasse e dividere l’orizzonte con lei, la pioggia avrebbe
bagnato i lunghi ciondoli che portava al collo e io mi sarei sentito a casa
dopo tanto tempo.
Pier Angelo Consoli.