mercoledì 31 luglio 2013

Esplosioni nel cielo da non ascoltare in macchina. Explosions in the sky.






 
 Se sei sull’autostrada di notte ti conviene spegnere. Gli Explosions in the sky ti farebbero deragliare. E lo dice uno che per un’estate intera ha macinato chilometri con i Sigur Ros nell’autoradio. Un’amica me li ha suggeriti e io ho scaricato la discografia per intero. Va precisato che io non amo i pezzi da dieci minuti solo strumentali senza una cazzo di traccia vocale che ti guidi. Mi fanno scendere le palle fino al pavimento. Questi poi mi ricordano moltissimo certi album dei Giardini di Mirò. Credo sia Progressive, se proprio mi sento costretto a specificare un genere d’appartenenza, questa è musica utile per scrivere, nel senso che parti per i cazzi tuoi e nella trans creativa te li scordi, però ti catturano e ti fanno compagnia, all’improvviso rinvieni e capisci che questo cazzo di album ti piace, non sono i Sigur Ros, capiamoci, non è un portale per un mondo altro fatto di neve, che grazie a quegli stronzi di finlandesi tu vedi con i tuoi occhi e ti viene proprio freddo, i Sigur Ros sono dei geni bastardi in certe cose, ma queste esplosioni nel cielo non sono affatto male ed è proprio questo quello che vedi se chiudi gli occhi, piccole fiammelle che si schiudono vicino alle stelle, nella prospettiva delle stelle. Uno dei pezzi dell’album si chiama First Breath after Coma e il primo minuto e mezzo è solo intro, poi devo dire che si riprende alla grande, e la batteria stile marcetta è una cosa che su di me fa sempre presa, ma sono i riff di chitarra che sono proprio belli. Questo è decisamente il mio pezzo preferito. Bello è anche Your hand in mine, questo piace tanto alla mia amica e forse lo userò come tappeto per il blog, non lo so. Sicuramente è adatto. Lì stò cercando di creare un mondo piccolo e perfetto, mi serviranno crepacci nel cielo, tre o quattro frecce, come in Coda di lupo, le ho trovate come stelle con la coda.   


Pier Angelo Consoli.

martedì 30 luglio 2013

Lo chiamano l’Iguana, voi potete chiamarlo come vi pare. Iggy Pop e Ray Manzarek.





Lo sapete perché presero a chiamarlo Pop? Una volta sua madre gli disse di tagliarsi i capelli e lui lo fece. C’era in mezzo una promessa del tipo se te li tagli ti regalo una chitarra o qualcosa del genere. Lui se li tagliò con la lametta e già che c’era si tagliò pure le sopracciglia. Finì che assomigliava allo scemo del paese, che appunto si chiamava Pop. Da allora Iggy Pop. Si sarebbe potuto chiamare Iggy Cesso in base alla stessa parabola nominale.
Prima che Iggy Cesso entrasse a far parte degli Stooges, Ray manzarek suonava negli Stooges, dopo i Doors naturalmente. Avevano bisogno di un cantante e il caso volle che Ray e Iggy avessero un amico in comune, tale Danny Sugerman, che di mestiere faceva il manager o qualcosa del genere. Sapete a quel tempo se non sapevi suonare proprio niente allora facevi il manager, l’industria discografica era come una verginella ubriaca su una nave pirata, tutti volevano fotterla e lei fotteva tutti. Allegramente. Così il nostro Danny dice a Ray che ha l’uomo giusto solo che si sente di avvertirlo che si tratta di un ragazzo alquanto ingestibile. Ray dal canto suo risponde che ha vissuto con Mr Ingestibilità in persona e se è riuscito a gestire Jim Morrison, allora questo Iggy non può fargli paura. Altro problema da risolvere era che in quel momento Iggy era in galera. Era stato trattenuto per ubriachezza molesta. In realtà poi si scoprì che Iggy non era proprio ubriaco ma fatto di Quaalude, un sonnifero abbastanza potente, per capirci fu una delle cose che trovarono nel corpo morto di Lester Bangs. Per poche centinaia di dollari riuscirono a tirarlo fuori, Iggy uscì vestito da donna e a stento si teneva in piedi. Va detto anche che a quel tempo gli Stooges non erano ancora una vera band, con una precisa identità musicale, erano solo dei musicisti con qualche canzone che dovevano provare. Quando sembrarono pronti per provare aspettarono una mezz’ora che Iggy scendesse dal piano di sopra, e quando scese si accorsero che era nudo. Ray gli fece notare che non essendoci ragazze in giro era inutile che se ne stesse senza vestiti, che almeno si mettesse una mutanda o un tanga, cosa che Iggy effettivamente fece. Glielo avevano detto a Ray che Iggy non era un tipo facile e Ray aveva fatto il suoperiore con la storia di Jim, eppure il Re lucertola era riuscito a sopportarlo per anni, con questa Iguana la cosa non durò che un pomeriggio. Manzarek si giustificò che nella musica che gli Stooges volevano fare, e che poi effettivamente fecero, non c’era posto per l’organo, poi attaccò tutta una pippa sull’armonia degli istinti Junghiani, sul superare il limite ma con meditazione e ponderazione, insomma nessuno ci capì un cazzo ma una cosa la capirono: “me ne vado” disse “c’è mia moglie in macchina che mi aspetta.”

Pier Angelo Consoli.

lunedì 29 luglio 2013

Animali domestici e Albun bianchi. La strana storia dei Beach Boys e dei Beatles.






C’era un oceano in mezzo, di acqua e di sonorità, un oceano culturale. Oggi diremmo che i Beatles e i Beach Boys sono stati dute tra i più grandi gruppi della storie della musica, ma all’epoca erano solo due tra i più grandi gruppi del mondo. C’è stato un tempo in cui appartenere a questi gruppi significava sana competizione e rispetto. Un po’ come se i Gallagher non ci rompessero le palle con due band praticamente identiche e capissero il significato dei capelli grigi e dei peli sul cazzo, e cioè che la fase dell’adolescenza è finita da un pezzo.
Quando Brian Wilson, leader di quella band famiglia che erano i Beach Boys, ebbe tra le mani Rubber Soul capì che era stanco della musica surf, stanco di scrivere canzoni sul sole della California e  sui tipi da spiaggia. Quello che disse è “voglio fare anch’io una cosa così.” In procinto di partire per il Giappone, per una tourné, comunicò agli altri che non sarebbe partito, che lui restava, perché aveva questo sogno da inseguire, restando fermo, in studio. Brian Wilson era leggermente sordo a un orecchio e per mesi si ritirò a scrivere canzoni, molte canzoni, a giudicare dal prodotto finale. Quando gli altri Beach Boys tornarono, lo trovarono immerso nelle partiture. Lui distribuì i fogli e diede istruzioni. Aveva un’orchestra nella testa, un’orchestra talvolta fatta di sole voci a cappella. In breve incisero uno degli album più influenti e importanti della storia del pop rock, il suono prediletto, quello degli animali domestici, il Pet Sounds, appunto. Quando l’album attraverò quell’oceano finì nelle mani dei Beatles e quando lo ebbero ascoltato pure Lennon e McArtney pensarono “voglio fare anch’io una cosa così” e quando ebbero finito di lavorare presero tutte le canzoni, molte canzoni, a giudicare dal prodotto finito, e lo chiamarono Album bianco, White Album, appunto.


Pier Angelo Consoli.

venerdì 26 luglio 2013

La vita ci farà a pezzi, ancora. Ian Curtis.





Ti dovevi fumare sei pacchetti di Ducados e forse o non avresti più avuto voce o avresti avuto una voce come la sua. Aveva ventiquattro anni quando si disse non  ci vengo in America, mi vedo la Ballata di Strojsek, metto su un disco di Iggy Pop, prendo la corda del bucato e faccio un salto nel vuoto alto come può essere alto uno sgabello. Ventiquattro anni, era il mese di maggio, questo numero, ventiquattro, e mica è uno scherzo avere una voce da oltretomba come quella e dire “salve, mi chiamo Ian e ho ventiquattro anni.” Dirlo ed essere credibile. E poi c’era tutta quella storia dell’epilessia, e una moglie e una figlia, un’amante belga che ti rompe le palle, che vuole che lasci tutto e vai a vivere con lei, i tuoi genitori che ti asfissiano con un posto nelle risorse umane, un posto fisso e lascia perdere sta cazzata della musica che hai una figlia, una figlia che di solito tremi così tanto che nemmeno te la lasciano tenere in braccio, e tutto questo basta per mandare in pappa il cervello di chiunque, pensa quello di uno che praticamente è un adolescente. Ma molte di queste cose se le era cercate lui, non che Ian non fosse una persona tremenda, insicura e possessiva, cattiva molto spesso, maniacale nel voler stare sempre al centro dell’attenzione, svogliato, pigro e indolente, Deborah Curtis per tutto Così lontano così vicino, la sua personale versione della storia, non fa che ripetercelo. E io, ormai lo sapete, sono più incline alle cadute che alle altezze, ma stavolta proprio non ci riesco, per affetto, per come ballava, sciamanicamente davvero esorcizzava il male in un ballo che era un manifesto, che era come dire si sono fatto così, io sono così, ho questo guaio nella testa, e tutta un’altra serie sparsa a vetri rotti sul pavimento di gelido linoleum della mia vita. Uno per cui la disperazione era il paesaggio mentale come per i poeti romantici lo erano le foreste e i grandi laghi. Ian Curtis scrisse “quando l’abitudine corrode a fondo e le ambizioni sono mediocri, e il risentimento impenna, mentre le emozioni non crescono, e noi cambiamo rotta, imboccando direzioni differenti. Allora l’amore, l’amore, ci farà a pezzi, ancora.” Odialo tu, adesso, un ragazzo che scrive così, in una canzone pop, se ci riesci.

 Pier Angelo Consoli.



Un Cielo Veramente Pesante. (Kurt Cobain.)



In vita sua Kurt Cobain non si lavò mai i denti. Eppure aveva denti perfettamente bianchi. Diceva che mangiare una mela equivaleva a lavarli. Aveva tutte questi atteggiamenti di chi effettivamente non era mai cresciuto e non aveva mai avuto una famiglia. D’altra parte, penso io, se a ventisette anni ti  spari in bocca con un fucile da caccia, c’è poco da pensare alle carie, nemmeno fanno in tempo a formarsi le carie. Uno degli episodi che mi piace sempre rievocare si riferisce al 1991. I Nirvana stavano scalando le classifiche con Nevermind e avevano già un video che impazzava su Mtv, e ppure Cobain viveva, come per quasi tutta la sua brevissima vita, sul sedile posteriore di una macchina. Complice uno svantaggiosissimo contratto firmato con la Subterrean pop di Jonathan Poneman, la stessa etichetta che, per capirci, prima di fare i soldi veri con i Nirava arrivò a far stampare delle magliette con su scritto “ che parte di Noi non abbiamo soldi Voi non avete capito?”
Quando un amico di Aberden, incrociandolo in un parcheggio, disse a Kurt che ormai era diventato famoso, che aveva fatto i soldi e si era scordato dei vecchi amici, “che effetto fa stare tutti i giorni in televisione?”
Kurt rispose “non ne ho idea, nella macchina dove vivo non ce l’ho la televisione.” Quell’anno ogni singolo componente dei Nirvana guadagnò circa ventimila dollari, praticamente meno di quanto guadagno io.
Interessante è che i figli di quella che poi fu nota come grunge generation, si badi che fino ad allora se aveste chiesto ai Nirvana che musica fate loro vi avrebbero risposto convinti che facevano musica Punk, avessero alle spalle famiglie che praticamente non esistevano. I Cobain, i Novoselik, i Love, persino i Corgan (Billy Corgan degli Smashing Pumpkins era il fidanzato di Courtney prima che Kurt ne facesse la conoscenze e ne fu sempre gelosissimo) erano tutte famiglie disgregate, separate e i cui figli vivevano tutti a casa di amici, sui sedili delle macchine o addirittura per strada.Molta della rabbia del Grunge va quindi cercata nelle statistiche della famiglia media americana di quella che Douglas Coupland definì Generazione X.
Il 1991 è anche l’anno dell’eroina, Kurt comincia a farne uso cercando di lenire quei lancinanti dolori allo stomaco della cui origine non si seppe mai nulla di chiaro. Nella sua testa i maccheroni al formaggio di una certa marca, credo fosse Kraft, ma non ne sono sicurissimo, erano l’unica cosa che poteva mangiare e per parte della vita non mangiò altro. Anche se di solito non mangiava affatto. Probabilmente i dolori allo stomaco erano causati di una forte scoliosi di cui Kurt era affetto, o dal suo rachitismo, è noto per esempio che Kurt indossasse due pantaloni alla volta nel disperato tentativo di sembrare meno Auscwitziano. In definitva Kurt aveva un viso incredibilemnet bello, ma fisicamente era veramente un disastro. Non so a quante ragazze sarebbe veramente piaciuto se spogliato della sua aura da maledetto del Rock n’roll avessero visto quanto in realtà fosse basso, magro e storto.
Altro aspetto interessante del giovane Kurt, l’eroina. Ci vorrebbe un articolo intero solo per questo e non è detto che prima o poi non abbia voglia di tornarci. I Cobain erano una famiglia di fattoni, e la nascita della piccola Francis Bean, in italiano Francesca Fagiolo, (Mio dio ma si può chiamare una figlia Fagiolo? Ma che cazzo!...) non li persuase a cambiare iter esistenziale. Anche da ricchi sfondati, con una figlia in giro, nel 1992, nella credenza di casa Cobain non era facile trovare del cibo. Al giornalista di Rollin Stone giunto per un’intervista Courtney da buona donna di casa offrì biscotti vecchi, “non c’è altro” disse “mi dispiace. Era proprio l’organizzazione che mancava e uno dei pesi che trascinarono Kurt a fondo era la paura di tornare povero, la paura di non sapersi evolvere, e la scelta di togliersi la vita in questo senso si è rivelata lungimirante, a oggi Kurt Cobain è sicuramente il defunto del rock con il fatturato annuo più alto di tutti i tempi. La bambinaia di casa Cobain era Michael Cali Dewitt, un cocainomane che prima di quello era stato lo spacciatore personale di Cobain. Gli si vuol bene a uno spacciatore, sempre, almeno fino a quanto ti fa credito o hai i soldi per pagarlo, gli si vuol bene tanto quanto si vuol bene alla propria sostanza preferita. Dev’essere una specie di transfert, o che ne so, misteri di Jung.
Michael Cali, mio dio, la bambinaia. Alla fine le provò tutte per morire, si sparava siringhe così cariche di eroina non diluite da essere particamente nere. Ma Kurt era un fattone di ferro, entrava e usciva dall’over dose ma non ci crepava mai, un fottuto rachitico d’acciaio. Alla fine non c’era spacciatore in tutta Seattle che volesse dargli la roba. Un morto famoso nell’androne della scale era una sciagura in cui nessuno di loro si augurava d’incappare. Voleva morire e ci provò in un sacco di modi, ormai Courtney e il resto dell’entourage si era specializzato in rianimazione over tossica. Alla fine si è comprato un fucile, almeno così non ci sarebbe stato persicolo che lo rianimassero.

 Pier Angelo Consoli.