Centinaia di persone affollano i ghetti di accoglienza, il fronte Siriano e una raccolta di racconti sul dolore che non riesce a diventare anacronistica.
"La lotta contro la morte è cominciata molto presto."
Marguerite Duras non è una scrittrice di frasi a effetto, è una scrittrice di frasi esatte. Ognuna porta nelle note delle sillabe un sordo silenzio. Le leggi e senti che non c'è altro da aggiungere. Questo è un pregio Hemingweyano.
Il Dolore è una raccolta giovanile, pubblicata dalla scrittrice,su richiesta dell'editore, in età avanzata.
Si parla di quella strana quotidianità delle città sotto le bombe nemiche, le città assediate e le persone che sono costrette a popolarle.
Ci sono lunghe attese di notizie, la ricerca di una vita che si spera non sia stata spenta da qualche parte, al freddo, in battaglia.
Una raccolta come il Dolore non smette mai di essere attuale, purtroppo.
Forse un giorno lo sarà, ma non adesso, non in questi giorni in cui si apre un altro fronte d'assalto, quello siriano, in cui si finge di voler ripristinare l'ordine attraverso il disordine di un cacciabombardiere.
Hanna Arendt ha scritto: "la guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri..."
Appare davvero difficile pensare che questa ennesima guerra abbia propositi diversi. Difficile credere che le Nazioni Unite trovino prioritario adesso portare la loro pace in una piccola nazione, la Siria, quando un intero continente, quello Africano, è in lutto da decenni.
Strano come si volle portare la stessa pace in Iraq, pochi anni fa, e in Libia, pochissimi anni dopo ancora, quelle stesse guerre che hanno aperto voragini politiche ed umanitarie. Centinaia di persone oggi affollano i ghetti di accoglienza, assiepati sulle coste, in attesa che gli venga riconosciuto lo status di essere umano.
Marguerite Duras è stata una donna fortissima, ogni giorno, dietro la sua macchina da scrivere, sul fronte partigiano, come spia tra i nazisti. Una donna cui non è stato reso il dono d'invecchiare in pace coi propri ricordi, nata a Saigon, seppellita a Montparnasse, in mezzo troppo bere, troppe sigarette, troppo amore dissipato, un volto sempre un po' triste, anche quando rideva, determinata come Fernanda Pivano, e lo sguardo, la bocca soprattutto, di Edith Piaf. Scrisse: "difficile non è raggiungere qualcosa, ma liberarsi dalla condizione in cui si è..." Forse è per questo che le guerre al mondo non finiranno mai, difficile non è raggiungere uno stato di pace, ma farlo durare, liberandosi del tutto della cadùca condizione di essere umani.
Pierangelo Consoli.
Chinese is nice è un luogo di sperimentazione, è un banco di lavoro, una rivista letteraria, il trapianto a cuore aperto di un romanzo.
sabato 31 ottobre 2015
martedì 27 ottobre 2015
Decostruzione percettiva, ovvero prendi un film e trattalo male… (Breve trattazione su "La telemetria dei corpi in movimento. Box Multimediale)
Internet è una cortina
che si dipana attraverso maglie e collegamenti molto stretti. Spesso accade che
cercando un cavallo, uno si ritrovi, nel giro di pochi minuti, a leggere un
articolo sui motori dei camion.
Il maggiore pericolo è
quello di perdere di vista, costantemente, il punto di partenza, il motivo
iniziale d’interesse.
Ma, del resto, il mondo
è pieno di distrazioni.
Siamo talmente
bombardati d’informazioni superflue che il nostro sguardo navigherà in
superficie, surferà su onde di nozioni. Siamo, perlopiù, costretti ad
un’analisi bidimensionale, che manca di prospettiva, di profondità. La reazione
istintiva della nostra mente è quella di registrare le informazioni, così come
la rete ce le distribuisce, con la stessa rapidità, restando vittima di
informazioni preliminari, anche quando, altri contenuti, finiranno col
contraddire quelle stesse informazioni.
In neuroscienza il
fenomeno è noto come “Information overload”, o sovraccarico cognitivo.
Significa che la nostra mente è bombardata costantemente da stimoli, da dati,
tanto che diventa impossibile processarli tutti in tempo reale. Siamo come un
486 affacciato sulla rete. Siamo avviliti.
La neuro scienziata Susan Greenfield, ritiene
che essendo immersi/sovraesposti, in una
navigazione solitaria ad una media di 9,5 ore al giorno, e considerando che
dovremo pur dormire, non ci resta molto tempo per socializzare. Eppure questa è
l’era dei Social. In realtà tendiamo quasi sempre a rapportarci a soggetti
assenti. Sebbene, da un lato, la rete aiuti ad accorciare le distanze tra
elementi estremamente distanti, di contro, allontana sideralmente tutto ciò che
è vicinissimo, fino a farlo sbiadire.
Spesso ci capita di
osservare persone sedute ad uno stesso tavolo, le quali pur essendo vicine,
chattano con altre persone che sono da tutt’altra parte. Ci si dimentica
sistematicamente di chi è presente, per rapportarsi con l’assente, il soggetto
altrove. Il soggetto, immagina di avere, attraverso il proprio pad, un ruolo in
una comunità assai più ampia e interessante di quella cui, normalmente,
dovrebbe appartenergli. Like e
condivisioni sopperiscono al bisogno di gratificazione istantanea. I social
network sono i fast food dell’ego. Una proiezione caleidoscopica di narcisismo
e insicurezza che ci restituisce una presenza/assenza priva di confronto reale,
che narcotizza l’empatia.
L’uomo
post moderno immagina il mondo come il prodotto dell’autonarrazione di chi vi
appartiene. Un costante e vuoto raccontarsi attraverso un
linguaggio sclerotico, fatto di immagini, emoticon, suoni e parole.
Essendo immersi
costantemente in un flusso d’informazioni indisciplinate, le soglie della
nostra attenzione si abbassano poiché la nostra mente viene stimolata
continuamente.
L’arte non può, in
nessun caso, esimersi dal prenderne atto.
Oggi, scrivere un libro
come Arcipelago Gulag, non avrebbe nessun senso, se non quello di voler male
all’Amazzonia e non verrebbe mai neppure pubblicato, a meno che lo scrittore
non sia già famoso e abbia già un suo mercato. Molto curioso è stato il caso
dello scrittore americano David Foster
Wallace, il quale finisce per essere protagonista/vittima dello stesso gioco
che per tutta la sua produzione cercò di smascherare. La poetica di Wallace si basa sulla
descrizione della condizione dell’uomo post moderno immerso in una realtà
vuota, assoluta e solitaria, in cui il linguaggio pubblicitario e le logiche
del mercato sono così pervasive da sostituire persino il calendario gregoriano.
Eppure, Infinite Jest, quella che si
ritiene essere la sua opera più ambiziosa,
altro non è che il mero frutto di un’operazione commerciale decisa dal
suo abile editore. Esso non è precisamente un romanzo, ma sono diversi
romanzi non finiti che Wallace aveva lasciato in un computer dimenticato, nella
sua vecchia stanza del college. Aveva avuto un brutto periodo, era stato
ricoverato e aveva passato del tempo in una specie di clinica per
tossicodipendenti, anche se non era un tossicodipendente, ma solo un forte
consumatore di Marijuana.
In fase di lancio
l’editore americano basò l’intera operazione sulla mole dello scritto. Fece
trapelare la notizia che un romanzo dalle dimensioni enormi stava per essere
pubblicato, creando una forte attesa.
L’abile operazione
commerciale tramutò una mole enorme di fogli dalla trama raffazzonata in un oggetto status che tutti
avrebbero dovuto comprare, anche se pochissimi lo avrebbero letto per
intero. Diventò, e ancora rappresenta, una questione di prestigio sociale che
si ricava dal possederlo e poterne fare menzione. Solo per leggere la trama su
Wikipedia, ci vogliono 10 minuti e comunque ti perdi. In ogni caso Infinite Jest non è un romanzo, è un oggetto, uno status appunto, potrebbe
essere di legno, non farebbe molta differenza.
Con questo non voglio
assolutamente dire che Wallace non fosse un ottimo narratore, e anzi, era
persino una persona di genio, purtroppo ne era consapevole e questo lo portava
spesso ad esprimere una prosa compiaciuta, ma aveva il dono indiscutibile di
rendere interessante anche le cose più noiose. Il punto è che Infinite Jest sebbene sia un’operazione
commerciale mirabile, culturalmente non ha nessun senso. Inoltre, e qui il
discorso sarebbe troppo lungo e fuorviante, il suicidio del suo autore, come
sempre purtroppo accade, ha contribuito enormemente alla creazione del mito.
Se non si fosse
impiccato nel suo soggiorno, forse oggi parleremmo di un vecchio Wallace, considerandolo non un genio assoluto, ma alla
pari di Franzen, autore, tra l’altro, assai più dotato e centrato, come interprete
di una generazione di narratori, quella degli anni novanta, e in ogni caso ne parleremmo
meno che dell’opera di Roth, o di De Lillo, loro sì, autentici geni letterari.
Del resto la sua opera
non ha portato nessuna innovazione reale e duratura, figlio di una tradizione,
quella massimalista, che affonda le radici in grandissime e inconsapevolmente massimaliste opere del passato,
quali Moby Dick di Hermann Melville e
Il Maestro e Margherita di Bulgakov,
e assai più recenti come Il Pasto Nudo
di Burroughs, e L’arcobaleno della gravità
di Pynchon. Il massimalismo americano è collassato su se stesso, superato dalle
sue stesse convinzioni. La rinuncia alla trama, la volontà di rendere ibridi i
propri scritti, al limite tra scienze matematiche, fantascienza, avventura ,
denuncia e mistilinguismo, proponendo sempre o quasi sempre opere di una mole
indecente, con miliardi di personaggi, dei romanzi mondo, in cui era quasi
impossibile orientarsi. Queste caratteristiche precise l’hanno resa una letteratura impossibile, come quei
buchi neri portatili dei Looney Tunes, che aperti a piacimento, ingoiavano
tutto ciò che gli capitasse a tiro.
Il massimalismo
americano è stato un ambizioso cortocircuito che ha mandato a fuoco tutta la
casa.
Non esiste innovazione
al di fuori della tradizione. Anche come intralcio esse sono in rapporto. E
maggiormente lo sono in questo senso.
L’innovazione partecipa
della tradizione come successione ad un lungo stato di costipazione. Essa è una
liberazione non assoluta, in quanto qualcosa di assolutamente inespresso sempre
rimane inespresso.
Questo scarto rinnova
la spinta che altrimenti sarebbe esaurita.
Come nelle processioni
cristiane, i due passi avanti saranno sempre succeduti da un passo indietro,
dove si va, non è dimentico di dove si viene. L’innovazione non è mai veramente
una rottura anche quando equivocabilmente ci pare così. Quando ci si pone in un
orizzonte di negazione assoluta, e maggiormente in questo caso, non si perde
mai di vista la linea d’orizzonte, il Nadir, rispetto allo Zenit fantoccio che
sempre si oppone e nel suo status di opposizione diventa coordinata di
spostamento.
Sono d’accordo con
Derridà quando dice che non c’è incompatibilità tra la ripetizione e l’innovazione
di ciò che differisce; e che il singolare
inaugura sempre, ma arriva anche, imprevedibilmente, come l’arrivo stesso,
attraverso la ripetizione.
Quell’imprevedibilmente, che Derridà utilizza,
resta la cosa più interessante. Ciò che finisce per essere metabolizzato come
nuovo, ci giunge in maniera imprevedibile per noi, e imprevista dallo stesso portatore.
I Nirvana, che furono considerati, metabolizzati, come Grunge, e quindi come
qualcosa di assolutamente nuovo e mai visto, non intendevano fare altro che
musica Punk. Lo stesso accadde agli scrittori e ai poeti Beat.
Non è possibile partire
nel nuovo, ma ci si ri-trova nel nuovo, quasi per caso, quasi senza volerlo. Qualunque
operazione differente rimane presuntuosa, stucchevole e non innovativa.
Ciò che è considerato
nuovo viene stimato come tale a fatto avvenuto, e sempre tenendo presente il
solco di tradizione all’interno del quale ci si pone.
La cultura occidentale,
la sua anima consumistico/capitalistica, sostiene continuamente l’equivoco
secondo il quale non solo tutto deve essere nuovo, ma che ciò che è nuovo irrompe nel presente
stravolgendo le regole della tradizione. Questo è tipico del consumismo, immaginare
un nuovo effimero, che si consumi in fretta, per fare spazio alla nuova novità.
La novità, invece,
sopraggiunge attraverso un percorso circolare, che non si inter-rompe mai
veramente.
Il nuovo è non
necessario, nel senso che può essere diverso da come è.
Il futurismo italiano
ponendosi come elemento di forte e assoluta rottura con la tradizione, restava
fortemente in superficie, mancando di spessore culturale. Probabilmente esso ha
senso solo come scintilla, come ispirazione, a differenza del futurismo russo
che invece, ponendosi come elemento di novità consapevole all’interno di una
struttura tradizionale, come cortocircuito all’interno di un circuito che non
si rifiutava ma che si intendeva alterare, raggiunge quello spessore e quella
profondità che mancava agli italiani.
È quindi impossibile
pensare al futurismo oggi e rifarsi a Marinetti, piuttosto che a Majakovskij.
Marinetti è un gioco,
Majakovskij è una sfida.
Se fosse una vera
rottura, rotta, separata, monca e
mancante, il nuovo sarebbe un’isola, priva di ponti, destinata ad avvizzire, ad
incancrenirsi nel suo disperato isolamento, a sparire. Quando invece esso si
im-pone all’interno di una struttura, diventa un braccio, che pur cercando di distanziarsi
dal corpo di appartenenza, pur tendendo verso un altro corpo che ancora non
vede, resta però saldamente legato a quel corpo.
La novità è figlio di
una tradizione padre, verso la quale recalcitra e si oppone, ma da cui non
potrà mai distanziarsi veramente e finirà sempre con l’assomigliargli poiché,
quel padre, è l’unico modo che conosce di fare una certa cosa. E sarà a sua volta padre, paternale e trascendentale,
pedante come ogni padre, e conoscerà la frustrazione del rapporto con un figlio
nuovo, che gli paleserà tutte le mancanze, i limiti e le idiosincrasie. Il
nuovo che diventa vecchio, quando un altro nuovo gli si parerà davanti, lotterà
con tutte le sue forze per non soccombere, dimenticando tutta la carica
propulsiva che lo ha spinto a nascere, quell’invito a farsi da parte; da
sovversione contro una tradizione, diventerà reazione alla nuova eversione.
Alimentando un ciclo
dialettico privo di una sintesi/conciliazione possibile, questo si, assolutamente
necessario.
Ma cosa è nuovo oggi?
La sensazione naturale
è che tutto si sia fatto, del resto questa sensazione non era estranea ad ogni
uomo, in ogni epoca.
L’uomo, per mancanza di
prospettiva immanente alla propria condizione di soggetto affacciato alla
morte, alla fine, sempre immagina che non ci sia futuro, che tutto sia stato
compiuto e che null’altro ci sia da compiere.
Ed è proprio per questo
che il nuovo sopravviene incosciente di essere tale. Come abbiamo detto, non si parte mai dal
nuovo, ma ci si ri-trova nel nuovo. Importante è forse spiegare la semantica
del termine ri-trova. Esso significa trovarsi ancora, trovarsi nuovamente, e sembra
assumere sfumature paradossali qui dove si parla di nuovo.
Trovarsi ancora nel
nuovo. Ma il punto è sempre lo stesso, se fosse possibile concepire un elemento
che fosse completamente e assolutamente nuovo, tale da essere scisso da
qualunque provenienza, come un primo uomo senza storia, sarebbe impossibile
ri-trovarsi in esso, trovarsi ancora in esso, noi possiamo ri-trovarci nel
nuovo solo perché esso è immerso completamente in un passato e futuro di novità.
Per questo motivo il
movimento spazio/temporale del nuovo, non avviene mai in avanti, ma in
diagonale. La tradizione è la base a partire dalla quale il nuovo non si
sposterà mai a novanta gradi: essendo inconsapevole esso sarà sempre mancante
della necessaria forza propulsiva per stuprare la realtà, per offenderla a tal
punto; esso si muoverà quindi tracciando una linea leggermente obliqua, gobba,
consciamente o inconsciamente sottomessa.
In questo gioca un
ruolo fondamentale tutto il peso dell’eredità. Un’eredità, come ha spiegato
Derrida, al cui ingombro, spesso si è tentati di sottrarsi attraverso uno
scacco concettuale. Freud, che si dichiara padre della psicoanalisi, dimentica
o finge di dimenticare, il debito che ha nei confronti della storia del
pensiero filosofico che lo anticipa. E lo stesso fa Žižek, al quale mi riferisco col massimo rispetto, il quale ha mutuato un
debito pesante nei confronti dello stesso Derrida, ma il suo narcisismo gli
impone di riconoscersi figlio di padri più grandi, Lacan e Hegel. Il che denota
tutta l’insicurezza di un pargolo che cerca una patente di grandezza nel
luccichio dello stemma di famiglia. Come se Derrida e il decostruzionismo non
fossero desinenze abbastanza grandi, o forse soltanto troppo vicine, così
vicine da apparirgli come fratelli maggiori.
Molto interessante è l’immagine “Socrates and Plato”, frontespizio di
Prognostica Socratis Basilei, del XXIII secolo, di Mattew Paris, (ms Ashmole
304, fol.31v, Bodleian Library, Oxford)
che Derrida pone all’inizio del saggio La carte postale.
Saggio strano, poetico, fatto di missive, di cartoline, spedite ad una
donna di cui non conosceremo mai l’identità, ma del resto non importa.
L’immagine raffigura Socrate seduto, che
scrive sotto dettatura di Platone, in piedi alle sue spalle.
È strano vedere
Socrate, maestro, che scrive sotto dettatura dell’allievo Platone. In realtà
tutto ciò che sappiamo di Socrate, lo sappiamo tramite Platone, per mano di
Platone. Egli ci resta come personaggio che siamo giustificati a ritenere
persona viva, saggia, che dialoga ed elargisce pensiero.
Questo il senso della
raffigurazione. Socrate non scrive, non insegna, egli suggerisce. Platone ci
tramanda Socrate, le sue parole, è il suo modo di onorare il debito con il
maestro, con la tradizione filosofica che gli appartiene. Socrate muore come
persona e rinasce personaggio, inevitabilmente, come argilla nella mani
dell’allievo. Egli non è più, mai più se stesso, ma figura traslata, tradotta,
da una mente all’altra, da un linguaggio all’altro, il suo proprio e quello
dell’allievo, che non è più lo stesso idioma, è sempre greco, ma è il greco di
Platone, le parole che l’allievo sceglie di fargli dire. Non ci resta che
fidarci.
Platone detta a Socrate
le parole di Socrate, gli fa dire ciò che ritiene necessario, Socrate scompare,
tra le righe, nella dettatura.
Da Socratea, a Platone, la differance e la differénce di
Derrida.
Il tempo che ci vuole
per esprimere un concetto e l’assimilarlo, il comprenderlo, lo spazio tempo.
Non è una questione di orale e scritto, lo stesso filosofo dice:
la distinzione tra differénce e differance non è la stessa che separa
l’oralità dalla scrittura. Nella differance non si tratta solo del tempo, ma
anche dello spazio. È un movimento in cui la distinzione dello spazio e del
tempo non era ancora avvenuta…[1]
Socrate è fermo, morto,
e allo stesso tempo si muove, esso è la “Traccia”; Derrida direbbe: “… il processo, l’esperienza
che tende contemporaneamente, e fallisce, a fare l’economia della cosa altra
nella cosa stessa…”
In altre parole,
Platone nel suo essere la novità, non si sottrae al rapporto con la sua
tradizione Socrate, la “traccia”, e lo tramanda, si immerge completamente in
esso, fino a diventare la sua stessa voce, fino a permettergli di vivere non
solo per sempre, ma nella fattualità, nella contingenza del suo stesso tempo.
Forse Socrate non
esiste, per paradosso, egli è solo un personaggio di Platone. Wittgenstein
direbbe che Socrate è probabile.
Sono d’accordo con
Deleuze, quando dice che bisogna essere esausti per darsi all’arte
combinatoria…
Nel nostro caso, ciò
che è esausto, non è l’autore, lo scrittore, l’artista, esausto e molto più che
semplicemente stanco, di riproporre chiavi che non sono più in grado di aprire
porte, canoni stressati; ciò che è esausto è il mezzo stesso, il linguaggio, la
forma, la confezione.
Le biblioteche, le
librerie, sono cimiteri. In esse vi
portano cadaveri nuovi ogni giorno. Come alle Fontanelle[2]
ci si reca alla ricerca di un teschio votivo, cui affidare i propri sogni, le
proprie aspettative. Nulla di nuovo più non accade in libreria da troppi anni.
Non stupisce affatto che l’editoria sia in crisi.
Le persone trovano,
oggi, che l’interazione con l’oggetto libro, sia poco coinvolgente, molto meno
che con altre forme di intrattenimento, come il cinema, le serie tv, i
videogame.
Come accadde per gli
Strutturalisti francesi, i quali si resero conto che per raccontare, per
comprendere, la realtà nella sua interezza fosse necessaria una collaborazione,
un’interazione tra le più diverse discipline: la psicoanalisi, la sociologia,
l’antropologia, senza dar vita ad una scuola di pensiero, ma ad un’unione
d’intenti, una linea di pensiero comune; allo stesso modo, oggi, gli artisti
non possono esimersi dal cercare di stare insieme, dal cercare d’interagire.
Lo scrittore chiuso in
una stanza, da solo, l’Holderlin, nascosto nella sua torre ad impazzire, non ha
più senso. È necessario piuttosto che si verifichi una collaborazione alla
ricerca di quella che Deleuze chiamava
la lingua III.
Essa è in grado di:
Ricongiungere le parole
e le voci alle immagini, ma seguendo una particolare combinazione: la lingua I
era quella dei romanzi e culmina con Watt. La lingua II traccia i suoi
molteplici sentieri attraverso i romanzi (L’innominabile),
impregna il teatro, esplode alla radio. Ma la lingua III, nata nel romanzo (Come è), traversa il teatro, (Giorni felici, Atto senza parole,
Catastrofe), e trova nella televisione il segreto del suo insieme, una voce
preregistrata per un’immagine sempre sul punto di prendere forma…[3]
Questa capacità di
sintesi della lingua III, che Deleuze, in relazione all’opera di Samuel
Beckett, intravedeva nelle sue pièces per la televisione, e che, naturalmente,
possiamo comodamente trovare nel cinema, ha, nella sesta arte, esaurito quasi
tutta la sua spinta innovativa. Essa,
però, può essere ritrovata e aumentata,
operando, in sede letteraria, una decostruzione.
Il cinema è costituito
da: sceneggiatura (parte letteraria);
fotografia (immagini) e colonna sonora (partitura musicale).
Naturalmente è possibile rinunciare a parte di
questi contenuti, cioè è possibile che un film non abbia, per scelta registica,
una colonna sonora, che in qualche modo la sceneggiatura sia molto aperta, ma
in nessun caso si può rinunciare alla fotografia, poiché il cinema si fonda
sull’immagine, tutto ciò che nello schermo accade, si deve vedere.
E anzi, di norma, tendo
a diffidare dei film troppo descrittivi, troppo letterari, in cui una voce
narrante è chiamata a colmare i buchi, penso a film come Vicky, Cristina, Barcellona, di Woody Allen, un regista che adoro,
ma che in alcuni casi tende a mascherare le carenze d’ispirazione
cinematografiche con l’eccessiva letterarietà dei suoi film. Continuo a pensare
cioè che Woody Allen faccia, o che abbia fatto, troppi film.
Appare necessario,
oggi, un racconto che non sia fatto di sole parole.
Che vi sia una parte,
letteraria, ovviamente, ma che vi si affianchi, all’interno di uno stesso
cofanetto, che tutto possa racchiudere, anche un racconto sonoro, strutturato
in tracce chiave, e un racconto fatto d’immagini.
In questo modo il
lettore potrà usufruire di tutti gli elementi per creare un’immagine nitida
nella propria testa, un’immagine che solo gli verrà suggerita, ma sulla quale
avrà il pieno controllo.
La necessità del
cofanetto, che poi potrebbe essere qualsiasi cosa, l’importante è che ci sia un
elemento che sia in grado di racchiudere, che può essere una scatola come una
stanza, un tesseratto, capace di tenere dentro le tre dimensioni spaziali, più
una quarta, il tempo, ovvero una storia, con un inizio e una fine, e tutta la
capacità di fecondare di una storia, la sua naturale capacità di germinare,
seminando spore.
Il nostro tesseratto
letterario, e come un tesseratto dell’universo Marvel, sarà capace di
sprigionare un potenziale enorme, smisurato.
Il soggetto vi si
troverà catapultato all’interno come Cooper in Interstellar. Naturalmente il fatto che io e il collettivo cerchi,
abbiamo cominciato questo processo, e che in questa sede io ne parli, non
significa essere autoreferenziali, ma solo che si crede talmente in quello che
si dice, da provare veramente a farlo. Questo è un manifesto, se si vuole. Un
messaggio nell’interspazio creativo. Se ci siete, risponderete…
Per tornare al nostro
tesseratto letterario, i tre elementi,
ma se ne potrebbero aggiungere anche degli altri, in sostituzione, saranno
legati da un filo di senso, cionondimeno, potranno stare da soli, saranno indipendenti,
ovvero esaustivi del racconto stesso. Compito del musicista, per esempio, sarà
quello di operare un racconto fatto di immagini musicali, al fine di giungere
al cuore del significato.
Rifacendoci alla logica
triangolare di De Saussure:
Significante
Significato referente
Il significante è la
parte fisicamente percepibile del segno linguistico, esso è l'insieme degli
elementi fonetici e grafici che vengono, successivamente, associati ad un
significato, che invece è un concetto mentale, ovvero l’immagine che il
significante evoca nella nostra mente, la quale rimanda all'oggetto, il
referente, che è costituito da ciò di cui si parla.
In altre parole, se
tracciamo su un foglio un segno grafico di questo tipo: B. Graficamente noi la riconosciamo come una
b, niente di diverso da ciò che è, questo è il significante. Essa è la seconda
lettera dell’alfabeto latino, che si differenzia da quello greco, da quello
arabo, cinese, e così via: questo è il significato. Ma di cosa stiamo parlando
quindi? Di lettere, di lingua, di segni grafici, di scrittura. Questo è il
referente.
Allo stesso modo, nella
nostra opera, il racconto per immagini fungerà da significante; il racconto
musicale sarà il significato, e il racconto letterario il referente.
Il referente, il
racconto letterario, fungerà da collante, da contesto. Esso ci permetterà
sempre di capire di cosa precisamente ci stiamo occupando. Esso è l’Io di questa
catena, la sintesi dialettica.
Là dove, invece, tutto
ciò che costituisce immagine, ovvero il significante, sarà in qualche modo la
parte razionale, l’immagine, ciò da cui non possiamo fuggire in nessun modo, la
parte vincolante, che racconterà una storia a sua volta, questa stessa storia e
un’altra, tante altre, ma i cui volti, i colori, i paesaggi, saranno lì, non ce
li potremo inventare. Mentre la musica, il significato della nostra opera, avrà
il potere di essere maggiormente anarchica, sebbene vincolata al senso di quanto
andiamo dicendo. Non dimentichiamo che abbiamo sempre parlato di racconto
musicale, esso non è la colonna sonora del nostro racconto, ma un racconto di
per sé, capace e doveroso di innescare, con più forza che altrove, le immagini
nella nostra mente.
La musica detiene un
potere suggestivo più forte di qualsiasi
altra arte, essa è un medium potentissimo, in grado di evocare e suscitare le
emozioni nell’essere umano che vi entrerà in contatto.
Il nostro tesseratto letterario
è un paradosso artistico, un invito a procedere, a progredire.
Se questo invito sarà
colto non lo possiamo sapere ora.
Ma c’è da augurarselo.
[1]
Jacques
Derrida, al di là delle apparenze, l’altro è segreto perché è altro. A cura di
Samantha Maruzzella. Intervista di Antoine Spire. Mimesis edizioni. 2010.
[2]
Famoso
cimitero Napoletano in cui giacciono corpi senza nome e di cui la cittadinanza
si è sempre presa cura al fine di ricevere, in cambio, una grazia.
[3]
Gilles
Deleuze. L’esausto. Cronopio editore. Testo a cura di Ginevra Bompiani.
giovedì 17 settembre 2015
La TELEMETRIA DEI CORPI IN MOVIMENTO, tre motivi di una scelta.
La scelta di un titolo
è sempre indicativa del contenuto di un’opera d’arte.
In questo caso i motivi
sono tre:
Il primo è che un
titolo tanto lungo e articolato, nasconde l’essenza del lavoro del Collettivo
Cerchi, in esso convivono, in un rapporto scisso e legato, una ricerca di stile
e di suggestione poetica, e una ricerca molto precisa, un lavoro quasi
scientifico sui materiali e sulle formule da adottare di volta in volta.
Il ragionamento e lo
studio che precedono un opera consta, tutte le volte, di una mole di lavoro che
sovrasta l’opera stessa.
E questi due aspetti
della ricerca, si muovono in maniera indipendente l’uno dall’altro, la ricerca
e lo stile, ma restano legati da un’onda invisibile, e non è possibile davvero
scinderli.
Il secondo motivo sta
nella meccanica della storia, in essa si narra la vicenda di due persone il cui
destino è sottilmente e invisibilmente legato da un’onda telemetrica, un
rapporto di interdipendenza e di necessità, sebbene le vite dei due
protagonisti siano scisse, essi sono due corpi che si muovono in maniera
apparentemente indipendente l’uno dall’altro, su due stringhe diverse dell’esistenza,
due canali temporali che nel percorso continueranno a intersecarsi, a
scontrarsi e a influenzarsi reciprocamente.
Il terzo motivo sta
nell’opera in sé.
Abbiamo concepito un
lavoro a quattro, volevamo cioè raccontare la stessa storia in quattro chiavi
differenti, tre artisti, quattro opere separate, una sola storia.
Le opere, che tutte
sono contenute dentro una, sono legate tra loro e si influenzano, ma sono
ugualmente in grado di percorrere strade separate, il racconto musicale e
quello fotografico hanno influenzato e sono stati influenzati da quello
letterario, ma possono stare da soli, come ripetitori di suggestioni, dei
generatori di onde magnetiche che tengono insieme tutta l’opera, ma che da sole
sono comunque in grado di dire.
Dicevo quattro opere,
in realtà sono come tre + una. Il box non è solo una scatola, ma a sua volta
racconta. Esso è stato concepito per recitare una parte fondamentale, non solo
come collante, come elemento contenitivo, ma come un’opera in grado
di raccontare la propria versione della stessa storia.
Una volta aperto esso
sarà un portale, uno scrigno, un carillon, esso è il corpo della storia, là
dove la musica, le parole e le immagini, ne saranno gli organi vitali.
Pierangelo Consoli
Collettivo Cerchi.
giovedì 26 marzo 2015
Polaroid
#1
Indossava
la maglietta che gli avevo regalato.
Non
era una questione di legame. Forse gli era rimasta solo quella.
Venni
a saperlo molto dopo.
Nelle
settimane precedenti non avevo fatto altro che dormire.
Non
credevo più molto in quello che facevo.
Non
ci credo neanche adesso.
Indossava
la mia maglietta, una bianca, col colletto slabbrato e un buco sul fianco.
Prendo
ogni giorno tre pillole. Due ansiolitici e
un antidepressivo. Bevo molto caffè, poca acqua.
Il
giorno si consuma in cinquanta sigarette, stranamente non ho la tosse, ma
quattro gradini di fila bastano per farmi fermare.
Avevo
chiesto in giro perché nessuno me l’avesse detto, si era buttato di sotto.
Giuliana
disse
«aveva la tua maglietta,
non volevamo farti impressionare…”
pierangelo consoli
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