lunedì 30 aprile 2012

Il palleggio da fondo campo.





Matteo infilò la chiave nella serratura di casa, entrò nel piccolo monolocale in cui si era trasferito da qualche mese e lasciò cadere pesantemente la borsa a tracolla sul pavimento. Aveva concluso il suo turno di lavoro, come sempre, alle 8 del mattino. Era nella sorveglianza di un centro commerciale. Un lavoro senza particolari pretese, l’unico che aveva trovato dopo diversi mesi di disoccupazione. La cosa più difficile da fare era rimanere svegli, ogni notte prosciugava il distributore di caffè che gli era stato messo a disposizione nel gabbiotto. Si tolse rapidamente la divisa, fece una lunga pipì e si fiondò a letto. Prima di farsi rapire definitivamente dalla stanchezza pregò che anche quella mattina non cominciassero a giocare alle nove in punto.
Quando aveva preso casa aveva fatto un errore fondamentale. La casa era carina si, da poco ristrutturata, aveva un buon prezzo e si trovava in una bella zona della città, ben collegata, con del verde attorno e diversi negozi nelle vicinanze. Tanto che quando andò a vederla, raccontò subito agli amici di aver trovato finalmente una sistemazione degna, una vera occasione. Aveva tralasciato un unico particolare. La finestra della stanza da letto, difatti l’unica apertura di casa, dava, al primo piano, su un campo da tennis. Un club esclusivo, frequentato da gente che sapeva giocare, non dai classici attempati tennisti della domenica.
Le sue speranze furono però vane. Si era infilato sotto le coperte da pochi minuti e sentì cominciare quell’odioso palleggio da fondo campo. Col tempo aveva imparato a distinguere anche il numero dei giocatori dal solo rumore che faceva la pallina quando veniva colpita, se stessero giocando un doppio o un singolare. Anzi era in grado di immaginare le fasi di gioco, riconosceva chiaramente le battute, dalle volée, dai passanti di rovescio. I giocatori di volo, quelli che spesso si spingono sotto rete, ed i doppisti gli davano un po’ di tregua, il gioco era più spezzettato, gli scambi corti e i momenti morti erano molto di più.
Purtroppo quella mattina sul campo c’erano due palleggiatori incalliti, di quelli che non rischiano un colpo e che portano all’infinito gli scambi. Impossibile dormire con quel continuo tram-tram della pallina che gli rimbombava nella testa, da un lobo frontale all’altro come nel Pong, il vecchio gioco dell’Atari. Continuava a rigirarsi nel letto, aveva un disperato bisogno di dormire. A causa di quel maledetto sport non riusciva più a riposare, andava al lavoro sempre più stanco e la notte era sempre più difficile tenere gli occhi aperti. Un circolo vizioso da cui non sapeva più uscire. Mise la testa sotto al cuscino nel vano tentativo di attutire il rumore ma ormai non c’era verso di dormire. Sentiva le orbite intorno agli occhi incavarsi. Per quanto tempo avrebbe potuto reggere quella situazione, si chiedeva.
Ad un tratto gli montò in petto una rabbia che non gli apparteneva. Si alzò infuriato facendo volare il piumone dal letto, ma non andò a sbraitare alla finestra contro i due arrotini, ma nel piccolo ripostiglio in cui teneva conservato il suo vecchio arco di quando era nel giro della nazionale ed aveva rischiato più volte di diventare campione italiano di tiro. Strappò la lunga faretra dalla sua custodia, passò le dita lungo la corda per saggiarne la tensione. Era ancora scintillante e non chiedeva altro che scoccare una freccia. Matteo si avviò alla finestra, la spalancò con violenza ed in una frazione di secondo caricò il tiro, prese la mira ed infilzò uno dei due tennisti al collo proprio mentre questi stava per infilare un dritto incrociato con la sua racchetta. Un lungo getto di sangue partì nel punto in cui era stato colpito, la freccia aveva sicuramente reciso la giugulare. Il malcapitato stramazzò al suolo senza essersi nemmeno reso conto di ciò che era successo. Il suo compagno di gioco, sbigottito da quella scena da film dell’orrore di serie b, cominciò a scappare per avere salva la vita. Impalcabile l’arciere caricò rapidamente un’altra freccia e la scoccò. Un sibilo silente accompagnò la traiettoria del dardo che attraversò l’intero campo di gioco e raggiunse alla schiena il povero tennista che strisciò rovinosamente sulla terra rossa. Matteo, senza batter ciglia, fiero del fatto che la sua mira fosse rimasta quella di un tempo, chiuse la finestra e se ne tornò a dormire.

Darwes in China.

The Match - Boom-Boom Boris (The All Wimbledon Boy)

domenica 29 aprile 2012

Tu e Bill.

Lui era te come non avresti mai saputo essere, non avresti mai trovato il coraggio di poter essere, era una parte di te, quella più forte perché soppressa, una fiera in gabbia che addenta sbarre ogni giorno più dure,  quanto più intensa è questa terrificante, pacata rassegnazione. Provavi a leggere la sua vita come un mosaico troppo da vicino e quello che distinguevi erano solo le singole, infinite, meravigliose tessere, i suoi racconti. La sua vita ti sembrava allora una somma di vite, ognuna di esse breve quanto un respiro, fino a quello che sarebbe stato, alla fine di tutto, l’ultimo. Nel freddo della sua ombra avresti condannato l’arroganza con la quale credevi di poter ridurre la vita ad una ed una sola via, mentre ognuno dei tuoi attimi ed atomi, vissuti e pesanti, ti sarebbe sembrato inutile, quanto il calore alla neve.  Poi ti saresti accasciato tra i resti delle tue certezze, cercando di comporre un’unica, ultima speranza, una rivoluzione! Ma il fuoco dell’ispirazione  è fuoco di paglia ed i tuoi passi già lasciavano orme su una sottile coltre di cenere. Presto questa avrebbe ricoperto ogni cosa e tu dimenticato come distinguere i colori dai grigi. Un copione già scritto. La differenza tra te e lui: per te quella notti in cui vi incontravate sarebbero finite al mattino, per lui… lui non riuscivi ad immaginarlo al di la di quelle notti. 

Tanerc

J.S. Bach, english suite n.1, sarabande.

sabato 28 aprile 2012

Ansie e prestazioni.



Ho disinnescato
per te
le mie arterie migliori.
Parlami di Granada,
e poi dimmi che l'hai trovata nei miei occhi.
Baratto tutti i discorsi sui poeti polacchi
sui giocatori di scacchi
per un tuo silenzio.
Tutto lo straniero che voglio sono le tue mani.
Che infileremo in una bolla
tutte le insicurezze
e le faremo brillare
con le costole incrociate
nel bianco di un mattino
con la schiena curva.

MAI.

This will Destroy you. Quiet

venerdì 27 aprile 2012

Bill.

Lo potevi vedere li, nell’angolo più scuro dell’ultimo locale, tra birre ormai vuote e le piene ancora da arrivare. Lo potevi ascoltare, nei respiri tra avide sorsate, parlare di donne, vita ed arte, all’ultimo degli arrivati, a te, a nessuno. Era li per il fatto di esserci, perché doveva esserci e ne avevi bisogno tu ed il mondo. Era li perché li ti aspettavi di trovarlo, a sorriderti e chiederti di sedere accanto a lui. Tu l’avevi creato anni fa, da una costola di te, chiamato ad interpretare un ruolo che non avresti mai avuto il coraggio di interpretare. Ed ora era li a vivere la maledizione beata che gli avevi cucito addosso e tu che restavi ad ascoltare le tue parole dalle sue labbra.
Gli ascoltavi pensieri sulla brevità della vita, sulla fobia della vecchiaia e storie, tutte quelle che aveva da raccontarti. Ed erano tante o forse una che le racchiudeva tutte. Lo ascoltavi ritrarre visi di donne, tutte quelle che aveva amato, che avresti voluto amare, e paesaggi, tutti quelli che aveva scoperto, che avresti voluto scoprire. Lo vedevi ballare e cercare tra i passi incerti e scomposti le orme della gioventù intorno a lui, troppo veloce,troppo leggera! E lui lo sapeva, a lei aggrappato, con un sorriso a forma di uncino.

Tanerc.

Hold on. Tom Waits.  

Il tempo è un bastardo.

Il tempo è un bastardo
come aveva detto la Egan
lo si ignorava come i consigli
eravamo costretti
eppure da tutte le parti giungevano
segni che quella parte della vita
in cui ci potevamo permettere di ridere
e di aspettare
in cui era possibile immaginare che tutto potesse
semplicemente scivolarci addosso
fosse finito
eppure ci addestrammo all'ignoranza
fu come dire al ladro che le case sono vuote
lui volle dare comunque un'occhiata
e noi ci ritrovammo vuoti.

Faye Goddard.

Babies. Pulp. 





giovedì 26 aprile 2012

Il mozzo. Le rinuncie. Il sole che si trascinava al tramonto.

Gli disse ci vediamo al lago
poi aspettò che arrivasse osservando il piccolo mozzo arancione
che galleggiava imbarcando acqua
appoggiata alla staccionata.
Quando lo vide arrivare
si ricordò di aver smesso da tempo di pensare della sua faccia
si era dimenticata di quei connotati
che non sarebbero mai invecchiati con criterio
ci sono persone che sono vecchie foto
per cui il tempo non può che passare male
e lui era tra queste.
Faye Goddard osservava Marco venire
le mani in tasca
il sole che si trascinava al tramonto
i suoi capelli troppo corti.
"Ho pensato a te spesso" gli disse quando furono finalmente vicini
"io no" disse lui, nascondendo lo sguardo come spesso faceva
"ho smesso di pensare a te molto tempo fa."
Senza che nessuno lo sapesse Faye e Marco si erano protetti spesso
si erano tenuti in contatto per i molti anni di latitanza di lei
e molti dei messaggi, delle cartoline che lei mi mandava
segretamente mi venivano recapitate da lui.
"Mi piacerebbe che smettessi di mettere a repentaglio la tua vita
che ti trovassi un amore
un lavoro
e ti costruissi un futuro, ma so che non lo farai"
Faye si limitò a fissare il sole che si trascinava al tramonto
poi prese la pistola che aveva in tasca e la gettò nel lago
vicino al piccolo mozzo di colore arancione
che piano piano affondava
non molto distante.

Su Faye Goddard.


The Boat. Iori's Eyes. 

martedì 24 aprile 2012

Dire Faye e non capire troppo bene.

"Dovrai rassegnarti a pensare a lei come a una persona creativa,
con le sue indolenze, le sue carenze e le sue esplosività" disse Marco.
Come sempre accadeva i ritorni di Faye Goddard suscitavano dibattiti, non solo al telegiornale.
Ci sono volte in cui voler bene a una persona non ti permette di accettarla per quella che è.
Lo stesso sentimento che prova talvolta il padre per il figlio.
Non si riesce a capire quanto sia impossibile proteggere qualcuno dalle sue inclinazioni naturali, a prescindere da quanto queste siano votate al massacro.
Si avrebbe voglia di legare le persone a se, di tenerle a tiro.
"Cosa provi per Faye?" chiese poi, guardandomi non proprio dritto in faccia, ma di sfuggita, come quando si brinda e l'insicuro guarda la bevanda perché non finisca rovesciata addosso all'altra persona.
Dal canto mio non mi riuscì di rispondere.
Cosa avrei potuto dire?
L'avevo amata, negarlo sarebbe stato quantomeno stupido,
era una cosa nota agli amici,
ma adesso mi pareva che tutto fosse cambiato,
era finito il tempo dei viaggi folli a rincorrerla per il mondo,
adesso tutto si era fatto confuso e contrastante.
Eppure non c'era mai stato odio,
solo indifferenza in alcuni casi,
e forse sentivo per questo di non averla, sul serio, amata mai
mai che non fosse solo per me
per stare meglio io.

Su Faye Goddard.

 Wow. Verdena. Pezzi sparsi.

lunedì 23 aprile 2012

Ian Curtis.



Ti dovevi fumare sei pacchetti di Ducados e forse o non avresti più avuto voce o avresti avuto una voce come la sua. Aveva ventiquattro anni quando si disse non  ci vengo in America, mi vedo la Ballata di Strojsek, metto su un disco di Iggy Pop, prendo la corda del bucato e faccio un salto nel vuoto alto come può essere alto uno sgabello. Ventiquattro anni, era il mese di maggio, questo numero, ventiquattro, e mica è uno scherzo avere una voce da oltretomba come quella e dire “salve, mi chiamo Ian e ho ventiquattro anni.” Dirlo ed essere credibile. E poi c’era tutta quella storia dell’epilessia, e una moglie e una figlia, un’amante belga che ti rompe le palle, che vuole che lasci tutto e vai a vivere con lei, i tuoi genitori che ti asfissiano con un posto nelle risorse umane, un posto fisso e lascia perdere sta cazzata della musica che hai una figlia, una figlia che di solito tremi così tanto che nemmeno te la lasciano tenere in braccio, e tutto questo basta per mandare in pappa il cervello di chiunque, pensa quello di uno che praticamente è un adolescente. Ma molte di queste cose se le era cercate lui, non che Ian non fosse una persona tremenda, insicura e possessiva, cattiva molto spesso, maniacale nel voler stare sempre al centro dell’attenzione, svogliato, pigro e indolente, Deborah Curtis per tutto Così lontano così vicino, la sua personale versione della storia, non fa che ripetercelo. E io, non lo nascondo, sono più incline alle cadute che alle altezze, ma stavolta proprio non ci riesco, per affetto, per come ballava, sciamanicamente davvero esorcizzava il male in un ballo che era un manifesto, che era come dire si sono fatto così, io sono così, ho questo guaio nella testa, e tutta un’altra serie sparsa a vetri rotti sul pavimento di gelido linoleum della mia vita. Uno per cui la disperazione era il paesaggio mentale come per i poeti romantici lo erano le foreste e i grandi laghi. Ian Curtis scrisse “quando l’abitudine corrode a fondo e le ambizioni sono mediocri, e il risentimento impenna, mentre le emozioni non crescono, e noi cambiamo rotta, imboccando direzioni differenti. Allora l’amore, l’amore, ci farà a pezzi, ancora.” Odialo tu, adesso, un ragazzo che scrive così, in una canzone pop, se ci riesci.

Faye Goddard.

Love will tear us apart. Joy Division.
 

domenica 22 aprile 2012

Prendiamo gli strumenti. Adesso facciamo sul serio!

La pioggia si affacciava comprandosi il mio aprile
come un dittatore stufo di tutto
come un bimbo viziato
per due ore avevo urlato ieri
e per una avrei dovuto urlare oggi
tenere ferma la chitarra troppo grande
che mi premeva il petto
per proteggermi da tutti gli sguardi
come una trincea
osservare la scaletta
i dodici pezzi come come i dodici passi
avere voglia che venga la sera
voglia di mangiare con voi e ridere
di quell'eccitazione che precede ogni esibizione
le cose sceme che vogliamo dire
le cose stupide che vogliamo fare
una volta saliti sul piccolo palco
e sentirsi pronti ma mai del tutto
 e pensi alle cose che avresti potuto fare
che avresti potuto provare
ma ormai è tardi
devi salire
e sorridi affidandoti completamente
non sbaglieranno niente
io non sbaglierò
ricorderò le parole e tutti i passaggi
sarà come stare sott'acqua
per tutto il tempo che per te
saranno solo pochi minuti.

Faye Goddard.

La decisione. Tre alegri ragazzi morti.

sabato 21 aprile 2012

1978. Vince l'Argentina.

Le esplosioni nella testa
insopportabili come i jingle della cocacola
le cose da fare
le strade da trovare
le partite che avremmo voluto vedere
e quello che presto avremmo dovuto fare
il sole appena tornato con gli occhi ancora pieni di sonno
i compagni che sembravano finiti
e tutte le volte che ci siamo rimessi in piedi
e quanto costa il silenzio di Bertoni
l'esercito negli spogliatoi
il capitano in divisa e col cappello che disse all'altro capitano
quello con la divisa ma senza cappello
che si potrebbe anche perdere
ma poi non avrebbero garantito il ritorno
e li avrebbero davvero lasciati in balìa della folla
eravamo zero a zero
poi risalimmo le scale per la ripresa
e tutto ci sembrò un po' strano
sicuramente diverso.

Faye Goddard.

Il mio mal di testa. 





lunedì 16 aprile 2012

La Migliore Faye Goddard di tutta una vita.

Nella vita mi ritrovai spesso ad apprezzare la compagnia dei folli.
Non certo di quelli proprio pazzi da internare
ma penso a quelli che se da un lato conservarono quel minimo di lucidità
da essere considerati abili alla leva
dall'altro si rifiutarono con tutte le forze di farsi arruolare
in qualsiasi schiera o esercito o partito o movimento li si volesse accostare
mi sono sempre piaciuti i cani sciolti
i nottambuli, i compagnoni, quelli dell'ultima ora, gl'impuniti
gl'impenitenti, i reticenti, i renitenti, e tutti quelli che in qualche modo
trovarono sempre un modo per sfuggire all'ovvio
anche nelle pratiche quotidiane più stupide
quelli che le provarono tutte per non dover lavorare
e anche quando si rassegnarono a doverlo fare
lo fecero sempre col cuore da un altra parte, per poter progettare cose più importanti.
Non ho mai amato l'uomo attaccato ai soldi e nemmemo i malati d'avvenire
io mi sono tenuto alla larga da ogni forma di futuro per il solo gusto
di addormentarmi la sera e sentire il domani
scalciare nel ventre
e come una bestia sconosciuta sapere di doverla affronare
senza sapere bene cosa fare.

Faye Goddard.

Gli sbadigli di Fagotto. La pioggia che batte come una puttana.   

Il calcio al tempo dei Sentimenti.


L’arbitrò indicò il dischetto con piglio accusatorio. Al centravanti, a terra dopo il vistosissimo fallo, si riempirono gli occhi di terrore. Non si sarebbe preso la responsabilità di tirare quel rigore che poteva valere una stagione. Non con quel portiere che già gli aveva già parato di tutto in quella partita e che era indiscutibilmente il più grande pararigori che il calcio avesse mai conosciuto fino a quel momento. 9 consecutivi solo in quella stagione ed ai più grandi attaccanti del campionato italiano, nemmeno se avesse stretto un patto col diavolo. Si contorceva in terra, tenendosi la caviglia, anche se la botta l’aveva ricevuta allo stinco. Quando il suo capitano gli si avvicinò per chiedergli se se la sentisse di tirare, senza dire una parola, scosse il capo e chiuse gli occhi per dare prova di quel dolore insostenibile che gli impediva anche di rialzarsi. Il capitano si rivolse con lo sguardo agli altri giocatori, tutti facevano finta di non capire, tutti sapevano bene che non sarebbero mai riusciti a segnare a quella specie di stregone. Rivolse poi il suo sguardo al suo allenatore, aprendo le braccia in segno di rassegnazione. L’allenatore prima inveì a voce alta verso i suoi giocatori accusandoli di non avere le palle necessarie per giocare a calcio, poi fece un fischio in direzione del suo portiere, lo chiamò per nome: “Lucidioooo”. Poi gli disegnò con la mano il percorso che separava le due aree di rigore. Lucido, si indicò il petto come per dire: “Io? Proprio io?”, poi allargò le braccia e, a testa bassa, cominciò a correre verso la parte opposta del campo. Era suo fratello maggiore Arnaldo quello che l’aspettava, quello che faceva il suo stesso mestiere e che era considerato il più forte di tutti. Quando arrivò a raccogliere la palla, Arnaldo lo guardò negli occhi e accennando un mezzo beffardo sorriso, gli disse: “Ma che sei venuto a fare? Tanto te lo paro!”. Lucidio fece il duro e serissimo gli rispose: “Non metterci le mani che tiro forte. Te le spezzo!”. Arnaldo quel pallone lo raccolse dal sacco e Lucidio se ne tornò in porta, con la stessa testa bassa con cui era venuto.

 Dwarves in China.

La leva calcistica del 68. Francesco De Gregori.

domenica 15 aprile 2012

Di scrivere. Di dormire poco. Di farsi trovare.

I personaggi io me li sono sempre dovuti andare a cercare, li ho dovuti stanare, convincere, lusingare.
Ci sono scrittori che se ne stanno a casa e da cui i personaggi vanno
persino Tabucchi pare fosse un fortunato
Pessoa
per quanto mi riguarda non è mai stato così facile
forse perché mi sono spostato molto
e gran parte della vita l'ho passata in periferia
si vede che nei piccoli paesi non fu facile trovarmi
in ogni caso ho dovuto alzare il culo, farmi spazio, chiedere permesso, aspettare il turno
dire "senta, per caso ha un secondo? Le vorrei parlare di un progetto..."
Ci siamo tenuti stretti quando niente pareva andare bene
quando pareva non avessimo altro che noi
che niente oltre la nostra storia fosse importante e potesse funzionare
mi sono fatto personaggio a mia volta
per poter parlare da pari a pari
come se fossimo della stessa famiglia
parlassimo la stessa lingua
perché ci sono state volte in cui non si vedeva altro modo per affrontarla
la vita vera, altro modo per domarla, per farla innamorare.
Avrei potuto evitare di raccontare storie nella vita
rinunciando a quel ruolo che in ogni tribù qualcuno doveva pure avere
e io me la sono andata a cercare la sciagura
che nessuno me lo ha chiesto
ma ancora tenero decisi di vivere questa vita in questo modo
e adesso non mi pare proprio sia il caso di rinuciare.


Faye Goddard.

Elettrodomestici. La lancetta dell'orologio.

venerdì 13 aprile 2012

Faye Goddard è una mongolfiera immaginaria.

Tornò su una nave enorme
una vecchia ammiraglia dell'Achille Lauro
un bastimento in disuso da decenni riesumata e rimessa a galleggiare
da pirati somali pacifisti.
Un pezzo di ferro da svariate tonnellate arrugginite
stava a galla pericolosamente mentre
Faye Goddard si teneva alto il bavero
sul pontile mentre attraccava, o solo ci provava
che era come trovare posto a una balena in un acquario
la capitaneria di porto che intimava cose incomprensibili al megafono
l'equipaggio cantava una versione africana di all you need is love
Faye che sorrideva con gli occhi pieni di lacrime.
Ne parlarono i telegiornali
e fu una cosa che fece discutere per giorni
e i nostri telefoni cominciarono  a squillare per avvertirci.
Tornare in quel modo era proprio una di quelle cose
che tra noi si diceva fosse una cosa alla Faye Goddard
camminando sull'acqua
senza mai riuscire a passare inosservata
chi fosse finita col diventare Faye Goddard era difficile da capire
persino per noi che la conoscevamo da una vita
e forse una spia
o forse solo
l'elio che bruciato tiene in volo
una mongolfiera immaginaria.


Su Faye Goddard.


I luv the oh valley. Xiu Xiu.


mercoledì 11 aprile 2012

Una storia al 95% vera.

Il primo febbraio del 1995 da un albergo di Byswater road
un uomo esce di mattina presto, col freddo, lasciando sul tavolo della stanza il portafogli
esce senza contanti, documenti o carte di credito.
Stando alle ricostruzioni della polizia l'uomo prende la sua macchina e guida fino alla prima stazione di servizio, scende lasciando le chiavi attaccate al quadro e sparisce.
L'uomo che quella mattina di febbraio sparisce dalla faccia della terra si chiama Richie James Edwards, ed è un musicista. Più precisamente è il chitarrista del gruppo britannico Manic Street Preachers.
Il gruppo si era formato intorno al 1986, col nome di Betty Blue.
Nei Betty Blue Richie guidava solo il furgone e la band era formata da soli tre elementi.
Inizialmente non essendo ancora in grado di suonare la chitarra, saliva sul palco con l'amplificatore spento, come Sid Vicious.
Nonostante il loro atteggiamente la critica musicale continuava a considerare i Manic Street Preachers come una band Brit Pop. Nel 1991 mentre il critico Steve Lamac li stava intervistando e punzecchiando su questo argomento, Richie si scrisse sul braccio 4 REAL con un coltello, e la ferita fu così profonda che dovetterlo portarlo all'ospedale.
Fu il giro del mondo in 17 punti di sutura. Ovvero come ti tramuto in un'icona punk nel giro di 10 minuti di lametta.
Eppure più che i Clash, i Manic Street Preachers sembravano un gruppo glam rock, troppo fashion, troppo fighi, troppo effeminati. Ma nonostante questo Richie James era convinto di appartenere all'ultima grande band Marxista della storia.
Il 5 aprile del 1994, mentre Kurt Cobain si fa detonare il cervello con un fucile da caccia, Richie James tenta a sua volta il suicidio in una decina di divertenti modi, e come un novello Dorothy Parker, li fallisce tutti. Il bilancio di quell'anno rioporta anoressia nervosa, alcolismo, tendenze autolesive gravi, depressione. Un anno dopo, semplicemente sparì. Nessuna delle voci di presunti avvistamenti è mai stata confermata. I diritti delle sue canzoni sono stati accumulati dai membri della band su un fondo segreto a suo nome e pare ammonti oggi a due milioni di euro circa.
Una foto di Richie James è comparsa sulla rivista delle persone scomparse di quest'anno.
Il timore della famiglia è che un barbone da due milioni di euro si aggiri da qualche parte senza sapere chi è. L'aver lasciato i documenti in albergo pare indicare la voglia di tagliare i ponti con la propria vita passata. Quello che so è che un uomo completamente consapevole è entrato in casa mia affermando di essere lui. Un grosso tesoro è entrato da quella porta ma pare non avere nessuna intenzione di farsi trovare. Il rasoio di Occam suggerirebbe il suicidio come tesi più semplice da scegliere come esito di questa storia, ma a quanto pare la realtà ha ancora una volta inarcato un dito a falange e glielo ha ficcato dritto dritto nel culo godendosi il dolore dell'attrito.


L.B.

If you tolerate this. Manic Street Preachers.   

sabato 7 aprile 2012

Sesso e Paranoia.


Mi avviavi a piedi, lungo la massicciata autostradale, lo lasciai nella grossa decapottabile che ancora dormiva parzialmente vestito, sotto un cielo incandescente e gelido del colore della polvere da sparo.
Ero esausto e attraversavo la lingua di cemento a piedi, come un pellegrino disperato che aveva smarrito la cometa per propria colpa e non riusciva a farsene una ragione.
La mia sciarpa rossa fendeva il grigio del cappotto, del cielo e dell’asfalto. Erano le cinque del mattino.
L’autostrada era deserta e io mi sentivo svuotato e instabile, cercando di scappare più lontano possibile.
Il ventunesimo secolo e la sua trappola, il cui collante è il sesso e la cui struttura è la paranoia.
Mi lasciavo alle spalle un uomo nudo in una enorme decapottabile americana, grigia come il cielo e l’asfalto, come i miei capelli e il mio cappotto, capivo trascinandomi che il sesso è una forma stilizzata di politica poiché implica e mette in scena all’essenza lo sfruttamento.
La dinamica hegeliana del servo padrone non era mai stata così piacevole e compromettente.
Apostolo dell’estetica ballardiana mi svincolavo dalle maglie del secolo d’appartenenza, consapevole che la consapevolezza non salva e non educa, ma solo svuota.


Faye Goddard.

Goodbye kiss. Kasabian