sabato 31 ottobre 2015

MARGUERITE DURAS.

Centinaia di persone affollano i ghetti di accoglienza, il fronte Siriano e una raccolta di racconti sul dolore che non riesce a diventare anacronistica.
 
 


"La lotta contro la morte è cominciata molto presto."
Marguerite Duras non è una scrittrice di frasi a effetto, è una scrittrice di frasi esatte. Ognuna porta nelle note delle sillabe un sordo silenzio.  Le leggi e senti che non c'è altro da aggiungere. Questo è un pregio Hemingweyano.
Il Dolore è una raccolta giovanile, pubblicata dalla scrittrice,su richiesta dell'editore, in età avanzata.
Si parla di quella strana quotidianità delle città sotto le bombe nemiche, le città assediate e le persone che sono costrette a popolarle.
Ci sono lunghe attese di notizie, la ricerca di una vita che si spera non sia stata spenta da qualche parte, al freddo, in battaglia.
Una raccolta come il Dolore non smette mai di essere attuale, purtroppo.
Forse un giorno lo sarà, ma non adesso, non in questi giorni in cui si apre un altro fronte d'assalto, quello siriano, in cui si finge di voler ripristinare l'ordine attraverso il disordine di un cacciabombardiere.
Hanna Arendt ha scritto: "la guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri..."
Appare davvero difficile pensare che questa ennesima guerra abbia propositi diversi. Difficile credere che le Nazioni Unite trovino prioritario adesso portare la loro pace in una piccola nazione, la Siria, quando un intero continente, quello Africano, è in lutto da decenni.
Strano come si volle portare la stessa pace in Iraq, pochi anni fa, e in Libia, pochissimi anni dopo ancora, quelle stesse guerre che hanno aperto voragini politiche ed umanitarie. Centinaia di persone oggi affollano i ghetti di accoglienza, assiepati sulle coste, in attesa che gli venga riconosciuto lo status di essere umano.
Marguerite Duras è stata una donna fortissima, ogni giorno, dietro la sua macchina da scrivere, sul fronte partigiano, come spia tra i nazisti. Una donna cui non è stato reso il dono d'invecchiare in pace coi propri ricordi, nata a Saigon, seppellita a Montparnasse, in mezzo troppo bere, troppe sigarette, troppo amore dissipato, un volto sempre un po' triste, anche quando rideva, determinata come Fernanda Pivano, e lo sguardo, la bocca soprattutto, di Edith Piaf. Scrisse: "difficile non è raggiungere qualcosa, ma liberarsi dalla condizione in cui si è..." Forse è per questo che le guerre al mondo non finiranno mai, difficile non è raggiungere uno stato di pace, ma farlo durare, liberandosi del tutto della cadùca condizione di essere umani.

Pierangelo Consoli.

martedì 27 ottobre 2015

Decostruzione percettiva, ovvero prendi un film e trattalo male… (Breve trattazione su "La telemetria dei corpi in movimento. Box Multimediale)









Internet è una cortina che si dipana attraverso maglie e collegamenti molto stretti. Spesso accade che cercando un cavallo, uno si ritrovi, nel giro di pochi minuti, a leggere un articolo sui motori dei camion.
Il maggiore pericolo è quello di perdere di vista, costantemente, il punto di partenza, il motivo iniziale d’interesse.
Ma, del resto, il mondo è pieno di distrazioni.
Siamo talmente bombardati d’informazioni superflue che il nostro sguardo navigherà in superficie, surferà su onde di nozioni. Siamo, perlopiù, costretti ad un’analisi bidimensionale, che manca di prospettiva, di profondità. La reazione istintiva della nostra mente è quella di registrare le informazioni, così come la rete ce le distribuisce, con la stessa rapidità, restando vittima di informazioni preliminari, anche quando, altri contenuti, finiranno col contraddire quelle stesse informazioni.  
In neuroscienza il fenomeno è noto come “Information overload”, o sovraccarico cognitivo. Significa che la nostra mente è bombardata costantemente da stimoli, da dati, tanto che diventa impossibile processarli tutti in tempo reale. Siamo come un 486 affacciato sulla rete. Siamo avviliti.
 La neuro scienziata Susan Greenfield, ritiene che essendo immersi/sovraesposti,  in una navigazione solitaria ad una media di 9,5 ore al giorno, e considerando che dovremo pur dormire, non ci resta molto tempo per socializzare. Eppure questa è l’era dei Social. In realtà tendiamo quasi sempre a rapportarci a soggetti assenti. Sebbene, da un lato, la rete aiuti ad accorciare le distanze tra elementi estremamente distanti, di contro, allontana sideralmente tutto ciò che è vicinissimo, fino a farlo sbiadire.
Spesso ci capita di osservare persone sedute ad uno stesso tavolo, le quali pur essendo vicine, chattano con altre persone che sono da tutt’altra parte. Ci si dimentica sistematicamente di chi è presente, per rapportarsi con l’assente, il soggetto altrove. Il soggetto, immagina di avere, attraverso il proprio pad, un ruolo in una comunità assai più ampia e interessante di quella cui, normalmente, dovrebbe appartenergli.  Like e condivisioni sopperiscono al bisogno di gratificazione istantanea. I social network sono i fast food dell’ego. Una proiezione caleidoscopica di narcisismo e insicurezza che ci restituisce una presenza/assenza priva di confronto reale, che narcotizza l’empatia.   
L’uomo post moderno immagina il mondo come il prodotto dell’autonarrazione di chi vi appartiene. Un costante e vuoto raccontarsi attraverso un linguaggio sclerotico, fatto di immagini, emoticon, suoni e parole.
Essendo immersi costantemente in un flusso d’informazioni indisciplinate, le soglie della nostra attenzione si abbassano poiché la nostra mente viene stimolata continuamente.
L’arte non può, in nessun caso, esimersi dal prenderne atto.
Oggi, scrivere un libro come Arcipelago Gulag, non avrebbe nessun senso, se non quello di voler male all’Amazzonia e non verrebbe mai neppure pubblicato, a meno che lo scrittore non sia già famoso e abbia già un suo mercato. Molto curioso è stato il caso dello scrittore americano David Foster Wallace, il quale finisce per essere protagonista/vittima dello stesso gioco che per tutta la sua produzione cercò di smascherare.  La poetica di Wallace si basa sulla descrizione della condizione dell’uomo post moderno immerso in una realtà vuota, assoluta e solitaria, in cui il linguaggio pubblicitario e le logiche del mercato sono così pervasive da sostituire persino il calendario gregoriano. Eppure, Infinite Jest, quella che si ritiene essere la sua opera più ambiziosa,  altro non è che il mero frutto di un’operazione commerciale decisa dal suo abile editore. Esso non è precisamente un romanzo, ma sono diversi romanzi non finiti che Wallace aveva lasciato in un computer dimenticato, nella sua vecchia stanza del college. Aveva avuto un brutto periodo, era stato ricoverato e aveva passato del tempo in una specie di clinica per tossicodipendenti, anche se non era un tossicodipendente, ma solo un forte consumatore di Marijuana.
In fase di lancio l’editore americano basò l’intera operazione sulla mole dello scritto. Fece trapelare la notizia che un romanzo dalle dimensioni enormi stava per essere pubblicato, creando una forte attesa.
L’abile operazione commerciale tramutò una mole enorme di fogli dalla trama raffazzonata in un oggetto status che tutti  avrebbero dovuto comprare, anche se pochissimi lo avrebbero letto per intero. Diventò, e ancora rappresenta, una questione di prestigio sociale che si ricava dal possederlo e poterne fare menzione. Solo per leggere la trama su Wikipedia, ci vogliono 10 minuti e comunque ti perdi.  In ogni caso Infinite Jest non è un romanzo, è un oggetto, uno status appunto, potrebbe essere di legno, non farebbe molta differenza.
Con questo non voglio assolutamente dire che Wallace non fosse un ottimo narratore, e anzi, era persino una persona di genio, purtroppo ne era consapevole e questo lo portava spesso ad esprimere una prosa compiaciuta, ma aveva il dono indiscutibile di rendere interessante anche le cose più noiose. Il punto è che Infinite Jest sebbene sia un’operazione commerciale mirabile, culturalmente non ha nessun senso. Inoltre, e qui il discorso sarebbe troppo lungo e fuorviante, il suicidio del suo autore, come sempre purtroppo accade, ha contribuito enormemente alla creazione del mito.
Se non si fosse impiccato nel suo soggiorno, forse oggi parleremmo di un vecchio Wallace,  considerandolo non un genio assoluto, ma alla pari di Franzen, autore, tra l’altro, assai più dotato e centrato, come interprete di una generazione di narratori, quella degli anni novanta, e in ogni caso  ne parleremmo  meno che dell’opera di Roth, o di De Lillo, loro sì, autentici geni letterari.
Del resto la sua opera non ha portato nessuna innovazione reale e duratura, figlio di una tradizione, quella massimalista, che affonda le radici in grandissime e  inconsapevolmente massimaliste opere del passato, quali Moby Dick di Hermann Melville e Il Maestro e Margherita di Bulgakov, e assai più recenti come Il Pasto Nudo di Burroughs, e L’arcobaleno della gravità di Pynchon. Il massimalismo americano è collassato su se stesso, superato dalle sue stesse convinzioni. La rinuncia alla trama, la volontà di rendere ibridi i propri scritti, al limite tra scienze matematiche, fantascienza, avventura , denuncia e mistilinguismo, proponendo sempre o quasi sempre opere di una mole indecente, con miliardi di personaggi, dei romanzi mondo, in cui era quasi impossibile orientarsi. Queste caratteristiche precise l’hanno resa una letteratura impossibile, come quei buchi neri portatili dei Looney Tunes, che aperti a piacimento, ingoiavano tutto ciò che gli capitasse a tiro.
Il massimalismo americano è stato un ambizioso cortocircuito che ha mandato a fuoco tutta la casa.



Non esiste innovazione al di fuori della tradizione. Anche come intralcio esse sono in rapporto. E maggiormente lo sono in questo senso.
L’innovazione partecipa della tradizione come successione ad un lungo stato di costipazione. Essa è una liberazione non assoluta, in quanto qualcosa di assolutamente inespresso sempre rimane inespresso.
Questo scarto rinnova la spinta che altrimenti sarebbe esaurita.
Come nelle processioni cristiane, i due passi avanti saranno sempre succeduti da un passo indietro, dove si va, non è dimentico di dove si viene. L’innovazione non è mai veramente una rottura anche quando equivocabilmente ci pare così. Quando ci si pone in un orizzonte di negazione assoluta, e maggiormente in questo caso, non si perde mai di vista la linea d’orizzonte, il Nadir, rispetto allo Zenit fantoccio che sempre si oppone e nel suo status di opposizione diventa coordinata di spostamento.
Sono d’accordo con Derridà quando dice che non c’è incompatibilità tra la ripetizione e l’innovazione di ciò che differisce;  e che il singolare inaugura sempre, ma arriva anche, imprevedibilmente, come l’arrivo stesso, attraverso la ripetizione.
Quell’imprevedibilmente, che Derridà utilizza, resta la cosa più interessante. Ciò che finisce per essere metabolizzato come nuovo, ci giunge in maniera imprevedibile per noi, e imprevista dallo stesso portatore. I Nirvana, che furono considerati, metabolizzati, come Grunge, e quindi come qualcosa di assolutamente nuovo e mai visto, non intendevano fare altro che musica Punk. Lo stesso accadde agli scrittori e ai poeti Beat.
Non è possibile partire nel nuovo, ma ci si ri-trova nel nuovo, quasi per caso, quasi senza volerlo. Qualunque operazione differente rimane presuntuosa, stucchevole e non innovativa.
Ciò che è considerato nuovo viene stimato come tale a fatto avvenuto, e sempre tenendo presente il solco di tradizione all’interno del quale ci si pone.
La cultura occidentale, la sua anima consumistico/capitalistica, sostiene continuamente l’equivoco secondo il quale non solo tutto deve essere nuovo,  ma che ciò che è nuovo irrompe nel presente stravolgendo le regole della tradizione. Questo è tipico del consumismo, immaginare un nuovo effimero, che si consumi in fretta, per fare spazio alla nuova novità.
La novità, invece, sopraggiunge attraverso un percorso circolare, che non si inter-rompe mai veramente.
Il nuovo è non necessario, nel senso che può essere diverso da come è.
Il futurismo italiano ponendosi come elemento di forte e assoluta rottura con la tradizione, restava fortemente in superficie, mancando di spessore culturale. Probabilmente esso ha senso solo come scintilla, come ispirazione, a differenza del futurismo russo che invece, ponendosi come elemento di novità consapevole all’interno di una struttura tradizionale, come cortocircuito all’interno di un circuito che non si rifiutava ma che si intendeva alterare, raggiunge quello spessore e quella profondità che mancava agli italiani.
È quindi impossibile pensare al futurismo oggi e rifarsi a Marinetti, piuttosto che a Majakovskij.
Marinetti è un gioco, Majakovskij è una sfida.
Se fosse una vera rottura, rotta,  separata, monca e mancante, il nuovo sarebbe un’isola, priva di ponti, destinata ad avvizzire, ad incancrenirsi nel suo disperato isolamento, a sparire. Quando invece esso si im-pone all’interno di una struttura, diventa un braccio, che pur cercando di distanziarsi dal corpo di appartenenza, pur tendendo verso un altro corpo che ancora non vede, resta però saldamente legato a quel corpo.
La novità è figlio di una tradizione padre, verso la quale recalcitra e si oppone, ma da cui non potrà mai distanziarsi veramente e finirà sempre con l’assomigliargli poiché, quel padre, è l’unico modo che conosce di fare una certa cosa.  E sarà a sua volta padre, paternale e trascendentale, pedante come ogni padre, e conoscerà la frustrazione del rapporto con un figlio nuovo, che gli paleserà tutte le mancanze, i limiti e le idiosincrasie. Il nuovo che diventa vecchio, quando un altro nuovo gli si parerà davanti, lotterà con tutte le sue forze per non soccombere, dimenticando tutta la carica propulsiva che lo ha spinto a nascere, quell’invito a farsi da parte; da sovversione contro una tradizione, diventerà reazione alla nuova eversione.
Alimentando un ciclo dialettico privo di una sintesi/conciliazione possibile, questo si, assolutamente necessario.
 Ma cosa è nuovo oggi?
La sensazione naturale è che tutto si sia fatto, del resto questa sensazione non era estranea ad ogni uomo, in ogni epoca.
L’uomo, per mancanza di prospettiva immanente alla propria condizione di soggetto affacciato alla morte, alla fine, sempre immagina che non ci sia futuro, che tutto sia stato compiuto e che null’altro ci sia da compiere.
Ed è proprio per questo che il nuovo sopravviene incosciente di essere tale.  Come abbiamo detto, non si parte mai dal nuovo, ma ci si ri-trova nel nuovo. Importante è forse spiegare la semantica del termine ri-trova. Esso significa trovarsi ancora, trovarsi nuovamente, e sembra assumere sfumature paradossali qui dove si parla di nuovo.
Trovarsi ancora nel nuovo. Ma il punto è sempre lo stesso, se fosse possibile concepire un elemento che fosse completamente e assolutamente nuovo, tale da essere scisso da qualunque provenienza, come un primo uomo senza storia, sarebbe impossibile ri-trovarsi in esso, trovarsi ancora in esso, noi possiamo ri-trovarci nel nuovo solo perché esso è immerso completamente in un passato e futuro di novità.
Per questo motivo il movimento spazio/temporale del nuovo, non avviene mai in avanti, ma in diagonale. La tradizione è la base a partire dalla quale il nuovo non si sposterà mai a novanta gradi: essendo inconsapevole esso sarà sempre mancante della necessaria forza propulsiva per stuprare la realtà, per offenderla a tal punto; esso si muoverà quindi tracciando una linea leggermente obliqua, gobba, consciamente o inconsciamente sottomessa.
In questo gioca un ruolo fondamentale tutto il peso dell’eredità. Un’eredità, come ha spiegato Derrida, al cui ingombro, spesso si è tentati di sottrarsi attraverso uno scacco concettuale. Freud, che si dichiara padre della psicoanalisi, dimentica o finge di dimenticare, il debito che ha nei confronti della storia del pensiero filosofico che lo anticipa. E lo stesso fa Žižek, al quale mi riferisco col massimo rispetto, il quale ha mutuato un debito pesante nei confronti dello stesso Derrida, ma il suo narcisismo gli impone di riconoscersi figlio di padri più grandi, Lacan e Hegel. Il che denota tutta l’insicurezza di un pargolo che cerca una patente di grandezza nel luccichio dello stemma di famiglia. Come se Derrida e il decostruzionismo non fossero desinenze abbastanza grandi, o forse soltanto troppo vicine, così vicine da apparirgli come fratelli maggiori.





 Molto interessante è l’immagine “Socrates and Plato”, frontespizio di Prognostica Socratis Basilei, del XXIII secolo, di Mattew Paris, (ms Ashmole 304, fol.31v, Bodleian Library, Oxford)  che Derrida pone all’inizio del saggio La carte postale.
Saggio strano, poetico, fatto di missive, di cartoline, spedite ad una donna di cui non conosceremo mai l’identità, ma del resto non importa.  L’immagine raffigura Socrate seduto, che scrive sotto dettatura di Platone, in piedi alle sue spalle.
È strano vedere Socrate, maestro, che scrive sotto dettatura dell’allievo Platone. In realtà tutto ciò che sappiamo di Socrate, lo sappiamo tramite Platone, per mano di Platone. Egli ci resta come personaggio che siamo giustificati a ritenere persona viva, saggia, che dialoga ed elargisce pensiero.
Questo il senso della raffigurazione. Socrate non scrive, non insegna, egli suggerisce. Platone ci tramanda Socrate, le sue parole, è il suo modo di onorare il debito con il maestro, con la tradizione filosofica che gli appartiene. Socrate muore come persona e rinasce personaggio, inevitabilmente, come argilla nella mani dell’allievo. Egli non è più, mai più se stesso, ma figura traslata, tradotta, da una mente all’altra, da un linguaggio all’altro, il suo proprio e quello dell’allievo, che non è più lo stesso idioma, è sempre greco, ma è il greco di Platone, le parole che l’allievo sceglie di fargli dire. Non ci resta che fidarci.
Platone detta a Socrate le parole di Socrate, gli fa dire ciò che ritiene necessario, Socrate scompare, tra le righe, nella dettatura.
Da Socratea, a  Platone, la differance e la differénce di Derrida.
Il tempo che ci vuole per esprimere un concetto e l’assimilarlo, il comprenderlo, lo spazio tempo.
Non è una questione di orale e scritto, lo stesso filosofo dice:


la distinzione tra differénce e differance non è la stessa che separa l’oralità dalla scrittura. Nella differance non si tratta solo del tempo, ma anche dello spazio. È un movimento in cui la distinzione dello spazio e del tempo non era ancora avvenuta…[1]


Socrate è fermo, morto, e allo stesso tempo si muove, esso è la “Traccia”;  Derrida direbbe: “… il processo, l’esperienza che tende contemporaneamente, e fallisce, a fare l’economia della cosa altra nella cosa stessa…”
In altre parole, Platone nel suo essere la novità, non si sottrae al rapporto con la sua tradizione Socrate, la “traccia”, e lo tramanda, si immerge completamente in esso, fino a diventare la sua stessa voce, fino a permettergli di vivere non solo per sempre, ma nella fattualità, nella contingenza del suo stesso tempo.
Forse Socrate non esiste, per paradosso, egli è solo un personaggio di Platone. Wittgenstein direbbe che Socrate è probabile.








 Sono d’accordo con Deleuze, quando dice che bisogna essere esausti per darsi all’arte combinatoria…
Nel nostro caso, ciò che è esausto, non è l’autore, lo scrittore, l’artista, esausto e molto più che semplicemente stanco, di riproporre chiavi che non sono più in grado di aprire porte, canoni stressati; ciò che è esausto è il mezzo stesso, il linguaggio, la forma, la confezione.
Le biblioteche, le librerie, sono cimiteri.  In esse vi portano cadaveri nuovi ogni giorno. Come alle Fontanelle[2] ci si reca alla ricerca di un teschio votivo, cui affidare i propri sogni, le proprie aspettative. Nulla di nuovo più non accade in libreria da troppi anni. Non stupisce affatto che l’editoria sia in crisi.
Le persone trovano, oggi, che l’interazione con l’oggetto libro, sia poco coinvolgente, molto meno che con altre forme di intrattenimento, come il cinema, le serie tv, i videogame.
Come accadde per gli Strutturalisti francesi, i quali si resero conto che per raccontare, per comprendere, la realtà nella sua interezza fosse necessaria una collaborazione, un’interazione tra le più diverse discipline: la psicoanalisi, la sociologia, l’antropologia, senza dar vita ad una scuola di pensiero, ma ad un’unione d’intenti, una linea di pensiero comune; allo stesso modo, oggi, gli artisti non possono esimersi dal cercare di stare insieme, dal cercare d’interagire.
Lo scrittore chiuso in una stanza, da solo, l’Holderlin, nascosto nella sua torre ad impazzire, non ha più senso. È necessario piuttosto che si verifichi una collaborazione alla ricerca di quella che Deleuze  chiamava la lingua III.
Essa è in grado di:


Ricongiungere le parole e le voci alle immagini, ma seguendo una particolare combinazione: la lingua I era quella dei romanzi e culmina con Watt. La lingua II traccia i suoi molteplici sentieri attraverso i romanzi (L’innominabile), impregna il teatro, esplode alla radio. Ma la lingua III, nata nel romanzo (Come è), traversa il teatro, (Giorni felici, Atto senza parole, Catastrofe), e trova nella televisione il segreto del suo insieme, una voce preregistrata per un’immagine sempre sul punto di prendere forma…[3]


  

Questa capacità di sintesi della lingua III, che Deleuze, in relazione all’opera di Samuel Beckett, intravedeva nelle sue pièces per la televisione, e che, naturalmente, possiamo comodamente trovare nel cinema, ha, nella sesta arte, esaurito quasi tutta la sua spinta innovativa.  Essa, però,  può essere ritrovata e aumentata, operando, in sede letteraria, una decostruzione.
Il cinema è costituito da: sceneggiatura (parte letteraria);  fotografia (immagini) e colonna sonora (partitura musicale).
 Naturalmente è possibile rinunciare a parte di questi contenuti, cioè è possibile che un film non abbia, per scelta registica, una colonna sonora, che in qualche modo la sceneggiatura sia molto aperta, ma in nessun caso si può rinunciare alla fotografia, poiché il cinema si fonda sull’immagine, tutto ciò che nello schermo accade, si deve vedere.
E anzi, di norma, tendo a diffidare dei film troppo descrittivi, troppo letterari, in cui una voce narrante è chiamata a colmare i buchi, penso a film come Vicky, Cristina, Barcellona, di Woody Allen, un regista che adoro, ma che in alcuni casi tende a mascherare le carenze d’ispirazione cinematografiche con l’eccessiva letterarietà dei suoi film. Continuo a pensare cioè che Woody Allen faccia, o che abbia fatto, troppi film.
Appare necessario, oggi, un racconto che non sia fatto di sole parole.
Che vi sia una parte, letteraria, ovviamente, ma che vi si affianchi, all’interno di uno stesso cofanetto, che tutto possa racchiudere, anche un racconto sonoro, strutturato in tracce chiave, e un racconto fatto d’immagini.
In questo modo il lettore potrà usufruire di tutti gli elementi per creare un’immagine nitida nella propria testa, un’immagine che solo gli verrà suggerita, ma sulla quale avrà il pieno controllo.
La necessità del cofanetto, che poi potrebbe essere qualsiasi cosa, l’importante è che ci sia un elemento che sia in grado di racchiudere, che può essere una scatola come una stanza, un tesseratto, capace di tenere dentro le tre dimensioni spaziali, più una quarta, il tempo, ovvero una storia, con un inizio e una fine, e tutta la capacità di fecondare di una storia, la sua naturale capacità di germinare, seminando spore.






 Il nostro tesseratto letterario, e come un tesseratto dell’universo Marvel, sarà capace di sprigionare un potenziale enorme, smisurato.
Il soggetto vi si troverà catapultato all’interno come Cooper in Interstellar. Naturalmente il fatto che io e il collettivo cerchi, abbiamo cominciato questo processo, e che in questa sede io ne parli, non significa essere autoreferenziali, ma solo che si crede talmente in quello che si dice, da provare veramente a farlo. Questo è un manifesto, se si vuole. Un messaggio nell’interspazio creativo. Se ci siete, risponderete…
Per tornare al nostro tesseratto letterario, i  tre elementi, ma se ne potrebbero aggiungere anche degli altri, in sostituzione, saranno legati da un filo di senso, cionondimeno, potranno stare da soli, saranno indipendenti, ovvero esaustivi del racconto stesso. Compito del musicista, per esempio, sarà quello di operare un racconto fatto di immagini musicali, al fine di giungere al cuore del significato.
Rifacendoci alla logica triangolare di De Saussure:


                    
                      Significante
   

   



 Significato                      referente






Il significante è la parte fisicamente percepibile del segno linguistico, esso è l'insieme degli elementi fonetici e grafici che vengono, successivamente, associati ad un significato, che invece è un concetto mentale, ovvero l’immagine che il significante evoca nella nostra mente, la quale rimanda all'oggetto, il referente, che è costituito da ciò di cui si parla.
In altre parole, se tracciamo su un foglio un segno grafico di questo tipo:   B. Graficamente noi la riconosciamo come una b, niente di diverso da ciò che è, questo è il significante. Essa è la seconda lettera dell’alfabeto latino, che si differenzia da quello greco, da quello arabo, cinese, e così via: questo è il significato. Ma di cosa stiamo parlando quindi? Di lettere, di lingua, di segni grafici, di scrittura. Questo è il referente.
Allo stesso modo, nella nostra opera, il racconto per immagini fungerà da significante; il racconto musicale sarà il significato, e il racconto letterario il referente.
Il referente, il racconto letterario, fungerà da collante, da contesto. Esso ci permetterà sempre di capire di cosa precisamente ci stiamo occupando. Esso è l’Io di questa catena, la sintesi dialettica.
Là dove, invece, tutto ciò che costituisce immagine, ovvero il significante, sarà in qualche modo la parte razionale, l’immagine, ciò da cui non possiamo fuggire in nessun modo, la parte vincolante, che racconterà una storia a sua volta, questa stessa storia e un’altra, tante altre, ma i cui volti, i colori, i paesaggi, saranno lì, non ce li potremo inventare. Mentre la musica, il significato della nostra opera, avrà il potere di essere maggiormente anarchica, sebbene vincolata al senso di quanto andiamo dicendo. Non dimentichiamo che abbiamo sempre parlato di racconto musicale, esso non è la colonna sonora del nostro racconto, ma un racconto di per sé, capace e doveroso di innescare, con più forza che altrove, le immagini nella nostra mente. 
La musica detiene un potere  suggestivo più forte di qualsiasi altra arte, essa è un medium potentissimo, in grado di evocare e suscitare le emozioni nell’essere umano che vi entrerà in contatto.
Il nostro tesseratto letterario è un paradosso artistico, un invito a procedere, a progredire.
Se questo invito sarà colto non lo possiamo sapere ora.
Ma c’è da augurarselo.


[1] Jacques Derrida, al di là delle apparenze, l’altro è segreto perché è altro. A cura di Samantha Maruzzella. Intervista di Antoine Spire. Mimesis edizioni. 2010.
[2] Famoso cimitero Napoletano in cui giacciono corpi senza nome e di cui la cittadinanza si è sempre presa cura al fine di ricevere, in cambio, una grazia.
[3] Gilles Deleuze. L’esausto. Cronopio editore. Testo a cura di Ginevra Bompiani.