Faye
e gli attacchi di panico, la fine della caffeina, i calmanti che frequentava,
frantumandoli in bocca per tenere a freno l’ansia che montava come tuorlo
d’uovo. L’avevo vista molte volte, la conoscevo, ci frequentavamo, “stiamo
insieme” diceva a quelli che ci vedevano arrivare “ma non in quel senso.” Faye
aveva la capacità di sfuggirti e io, dal canto mio, dicevo sempre “di tutte le
Faye Goddard del mondo, tu sei la più Faye Goddard di tutte, Faye Goddard.”
Sembrava padrona di una pace apparente per cui tutto le scivolava, una pace che
non aggrega. L’irrequietezza ti spinge sempre a cercare, la pace ti isola. Così
Faye Goddard sembrava capace di scomparire persino nella mia piccola macchina,
di rannicchiarsi nelle feritoie. Ci piaceva a tutti essere un po’ retrò, i
capelli corti, i fazzoletti in testa, gli occhiali da sole, i pantaloni a tubo
e i cappotti lunghi, voler essere apres garde, perché a guardare avanti, solo
avanti, finisce che ti senti da solo.
“Si
tratta di sopravvivere, signore e signori” diceva lei “non è stato mai diverso,
a prescindere dalle situazioni circostanziali, a prescindere dagli obiettivi,
questo è il senso della vita in un piatto da portata misura pollicino, da
consumarsi preferibilmente freddo, con le mani gelate.
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