martedì 7 maggio 2013

Suicidi Squisiti N°16. Ultimo. (La vida Tombola...)





Ludopatico all’ultimo stadio,
ancora una volta quello sarebbe stato
il suo ultimo gratta e vinci.
Vinse un milione di euro e ingoiò il coupon
In una sola volta…
Soffocato dalla gioia.




Avete presente quella teoria in base alla quale, secondo Freud, un giocatore d’azzardo gioca per vincere ma inconsciamente fa di tutto per perdere?
Puttanate…
Perché se lo chiedete a un giocatore, uno serio, uno malato, che gioca alle carte, ai dadi, al polo, ai cavalli e alle vacche da corsa, quello vi dirà che vuole vincere, che non ci sono cazzi, che se lo sente, vi dirà che è la mano buona, è sempre quella buona, la corsa buona, l’accoppiata vincente.
Forse ci sarà da qualche parte un tizio sfigato che si sente così tanto in colpa che per autopunirsi ci gode a perdere, ma credetemi: questa non è la routine.
Il senso di colpa è una componente fondamentale in questa storia, quello c’è sempre e ti accompagna, può persino portarti al suicidio se sei fragile e non ci stai attento, ma certe frustrazioni sono cose che subentrano dopo, quando hai già perso, perché mentre giochi tu non ci sei, sei fuori, dimentichi tutto il prima e vedi solo il dopo. Sarebbe importante sapersi controllare, sapersi gestire, ma mentre sei in ballo allora è una parola, quella pallina che balla sulle caselle della roulette, quella piccola biglia di teflon da 22 millimetri, sei tu.
Ogni essere umano di fronte al vizio, alla debolezza, diventa innocente, si gioca tutto in una sfogliata di carte convincendosi che non è una questione di fortuna, ma di destrezza, di essere quelli che fotteranno stasera mentre gli altri resteranno semplicemente fottuti.
Basta farsi un giro in una bisca per capire di cosa parlo, alla Snai, all’ippodromo o al casinò.
In tutta la sua umiliante nudità il campionario umano vi si dipanerà senza riserve. Ci sono quelli che si sono appena seduti a un tavolo da poker a base cinquanta euro e perdere a posta e in tutta fretta perché hanno sentito che se n’è appena aperto uno da duecento; quelli che non si sanno trattenere e i punti glieli leggi in faccia, i professionisti imperturbabili che perdono pure i BOT argentini e se ne vanno con una flemma manco il locale fosse il loro; poi ci sono quelli che si giocano la moglie, perché questa non è né una leggenda, né un luogo comune, certa gente la moglie sul piatto ce l’ha messa per davvero, non so come poi l’abbia spiegato alla consorte, ma tant’è…
I peggiori sono quelli che buttati fuori dalla bisca alle sei del mattino si giocano sul marciapiedi gli ultimi soldi tenuti in salvo per la benzina, se li giocano barbaramente, ad alzata di carta, la più alta e la più bassa, una tagliata di gola.
Inevitabilmente ci sta quello che resta a piedi e chiama l’amico che a quell’ora si sta alzando per andare a lavorare per farsi venire a prendere, accampando le scuse più assurde.
Il gioco è un lavoro a tempo pieno, come ogni dipendenza del resto, ci sono i soldi da rimediare, i posti in cui andare, le persone da contattare, le scuse da accampare. È una faticaccia, e non si capisce mai bene chi te lo faccia fare.
Alla fine non è importante cosa ti stai giocando, come o con chi, dentro ti scatta una botta di adrenalina, non c’è molto da spiegare, stai giocando e non ti puoi staccare, ci sei e non ci sei, è così…





Questa storia comincia precisamente cinque anni fa, ma se ci penso bene ha una gestazione più profonda.
Mia madre era impiegata alle poste, mentre mio padre di lavoro faceva le tre carte. Lui, zio Emilio e mia zia Franca tenevano il bancariello ai Tribunali. Mio padre girava le carte, mio zio faceva il palo e sua moglie fingeva di giocare. È una tradizione di famiglia che poi si è persa. Mio nonno lo faceva agli americani dopo la guerra e suo fratello preso dall’entusiasmo provò pure ad esportarlo a casa loro, a Chicago, ma lo misero in galera per un po’, poi tornò a Napoli e si mise a fare il meccanico. Mio padre in ogni caso lo ha fatto per anni. Prima la truffa non era così sgamata e la gente si fermava, soprattutto gli stranieri. Non è che fosse una cosa legale, ma si provvedeva ad allungare na mazzettella al poliziotto e quello chiudeva un occhio.
Papà nel quartiere era famoso, lo chiamavano il Cionco perché da piccolo aveva avuto la poliomelite e gli era rimasta una mano più piccola, un po’ accroccata, ma la utilizzava con una tale destrezza da tramutarla in un punto a favore negli affari perché c’era sempre chi si distraeva e fargli distogliere l’attenzione da ciò che si sta facendo è tutto nell’antico gioco della truffa.
Così siamo cresciuti mia sorella e io, con lo stipendio di mamma e la piccola ditta di famiglia.
Mio padre e i miei zii erano spesso in giro, si facevano le fiere, i gran premi, il palio di Siena, le manifestazioni, ovunque si prevedeva ci fosse stata gente loro là stavano, a fare lo spettacolino.
Papà cominciava a far mulinare le carte con la mano cionca, mio zio Emilio faceva il professore che però non puntava mai e mia zia la pollastra che nonostante fosse facilissimo per una ragione o per l’altra perdeva sempre. Nei loro portafogli sgusciavano fuori queste mazzette di cinquantamila lire rosa, tutte uguali, belle stirate, che erano sempre le stesse, tra loro, che giravano, come banconote segnate da una banca.
In realtà credo che una formazione come questa sarebbe dovuta bastare a tenermi lontano dal vizio del gioco, chi più di me avrebbe dovuto capire che è tutta una truffa, che chi ti fa giocare non ci può rimettere e che in sostanza il banco non si sbanca, vince sempre, ma come ogni giocatore anche io mi ero fatto fare fesso, quando cominci a vincere ti senti come se non potesse mai finire, come se avessi capito il sistema, tu da solo. Ci sono cose che stanno nel tuo sangue, ne puoi guarire, certo, ma prima ci devi passare. Il vizio è come l’herpes e i diamanti: è per sempre.
Prima di cadere nel vortice mi sono laureato in economia e commercio e ho messo su un’impresa di import-export con un amico dell’università. Commerciamo in mangimi. Quasi tutto a base di granone. Per un periodo abbiamo fatto i soldi cavalcando l’assurda moda dell’Australia. La gente prese ad allevare gli struzzi in Italia e noi per primi fummo in grado di fornirgli il mangime adatto. Dopo la moda si allargò anche alla carne di canguro e noi, ovviamente, ci siamo attrezzati per fornirgli pure quella.
Questi allevamenti e i locali all’australiana sembrarono una grande idea per un periodo, ma non ha funzionato. La verità è che gli struzzi non sono uccelli, sono eredità del paleolitico, sono dinosauri, e non è facile gestirli.
In realtà proprio alla carne di canguro è legato uno dei miei ricordi più imbarazzanti. Purtroppo una cosa che è importante imparare  è che ogni vizio si porta dietro tutta una serie di guai. Alla fine i debiti sono debiti e in un modo o in un altro li devi onorare, ed è così che inizi a fare le cazzate veramente grosse, quelle di cui ti penti.
Dovevo parecchi soldi a un tizio per via del poker così invece di canguri, ho venduto alani congelati.
Un mio amico ne aveva un allevamento di cui voleva disfarsi, erano alani adulti, i cuccioli è un conto, ma di quei cavalli non ne voleva sapere niente nessuno, così ci mettemmo d’accordo.
Li macellava lui, me li metteva nelle scatole e io provvedevo a organizzare il viaggio col camion frigo.
Era l’ultimo dei nostri clienti italiani in fatto di moda all’australiana, ci era arrivato tardi, quando tutti gli altri hanno provato e fallito, arriva lui, il solito pesce palla che pensa di essere un unicorno.
Questo genio era di Copertino, in Puglia. Così mi sono detto:è perfetto, proprio il pesce che mi serviva, che ne volete che ne sappia di canguri uno che viene dal paese di Pappalardo?
Aveva voluto fare il ristorante esotico all’australiana? E mo magnt gl’alani…
E se li sono mangiati, per mesi, ed erano pure contenti, solo che quell’idiota di Gi Gino che mi forniva la carne pezzotta tanti soldi tutti insieme non li aveva visti mai, così quando aveva finito i cani per paura che lo estromettessi dal business, non mi disse niente. Con suo cognato andava in giro la notte a fare l’accalappia cani.
Così va a finire che gli escono un paio di partite miste, dimensioni diverse, carne diversa, cani diversi, mi fa i soliti pacchetti e io che sono allo scuro di tutto prendo e mando. Solo che a un certo punto ai copertini gli deve essere venuto un dubbio e la fanno analizzare. E fu così che ricevetti l’invito al ristorante: sposalizio della figlia, non potevo rifiutare.





Il mio socio aveva insistito davvero tanto che non potetti dirgli di no. Non so se avesse pure lui fiutato qualcosa, so solo che se la sarebbe legata al dito. Gli dovevo un favore e lui disse che era un cliente importante, uno dei pochi che ci erano rimasti in Italia, che in tempo di crisi ci si doveva sacrificare e poi ero stato invitato io esplicitamente per cui non se ne poteva nemmeno discutere, ci dovevo andare.
«E poi» disse con un sorriso che per me aveva un che di maligno, «è solo un matrimonio, di che hai paura?...»
E di che avevo paura? Di niente, e perché? Io mica lo potevo immaginare che Gi Gino mi aveva tirato il pacco, che aveva preso pure i carlini, che ci aveva messo dentro alle scatole, tagliato a pezzi grossi, pure uno spinone. Queste sono cose che sono venuto a sapere dopo, praticamente in tribunale. Così mi misi in macchina insieme a mia moglie. Impostai il GPS e dopo qualche ora mi ritrovai nelle campagne pugliesi. Al mio arrivo trovai uno di quei posti che pensi stiano solo nei film di Altman, quei posti da rodeo che davvero dici “non è possibile a Copertino, ma perché?”
Era un ranch, non un semplice agriturismo, ma qualcosa stile “un texano a Melbourne.”
C’erano i cavalli, gli struzzi, le capre, tutti stipati in enormi recinti separati. Era l’Australia nella testa di un copertinese che mai ci aveva messo piede. Il sig. Casolaro al massimo era stato a Foggia e nemmeno gli era piaciuto, dell’Australia gliene aveva parlato un cugino da parte di padre, lui gli aveva raccontato storie mirabolanti di progresso e successo alla portata di tutti.
Giuro che all’ingresso c’era un enorme canguro gigante di cartapesta con gli occhi luminosi. Era uguale al topo saggio delle tartarughe ninja, solo che era nudo, senza kimono.
Era evidente che il sig. Casolaro ci aveva preso la fissazione coi canguri e forse proprio perché lo avevo colpito su quella sua passione se l’era presa così tanto, non credo che fosse per i soldi, Casolaro ne aveva davvero tanti, e nemmeno perché, come aveva detto al giudice, avevo avvelenato i suoi preziosi e affezionati clienti, quelli li avvelenava già di suo, con tutte le altre portate.
Arrivai direttamente al ricevimento, saltando la messa. Trattai di merda mia moglie per tutto il viaggio. Certo il nostro matrimonio era già in crisi, le troppe preoccupazioni di cui Maria era allo scuro mi tenevano sempre più a distanza. Sono sempre stato un uomo privo di tatto. Un pappone con la Mercedes sempre incline al chissenefrega.
 Sposata l’avevo sposata, perché era abbastanza bella e aveva i soldi, una donna senza grandi aspirazioni che avevo riempito di corna già il primo mese di fidanzamento, lei stava a Caserta dai suoi e io abitavo a Napoli, un paio di volte ero stato colto sul fatto ma io avevo sempre negato tutto. Suo padre era un medico affermato a capo di una catena di laboratori di analisi sparsi un po’ ovunque.
I primi capitali per la mia azienda me li aveva forniti lui e questo era stato quando eravamo ancora solo fidanzati. Da lì il passo per formare una famiglia nostra è stato breve, fu come e più di una promessa di matrimonio, non mi potevo più smarcare. Avrei dovuto ridargli subito tutti i soldi. Ma glieli ridiedi, poco alla volta nel tempo. È stato l’unico debito che in vita mia sono riuscito ad onorare.
All’arrivo al ristorante il sig. Casolare ci tenne personalmente a venirci a salutare al tavolo. Era la prima volta che lo vedevo di persona. Un cafone arricchito persino più cafone di me. Un omone più largo che alto, piazzato come un masso di sei tonnellate in campo aperto. Una di quelle cose che ovunque le metti stona.
Aveva persino il cappello alla J. R. con il laccetto alla texana invece della cravatta. Da come mi parlava e mi stringeva il collo, quasi fossimo amici, io capii che c’era molto che non andava.
Non mi sentivo a mio agio e mia moglie se ne accorse immediatamente. Cominciavo a sudare. Poi la cosa fu chiara, nonostante non ci fosse nel menu, a me e alla mia signora come seconda portata fu servita la famosa carne di canguro. Lui disse che si era preso quella libertà perché me la voleva far assaggiare, perché era squisita e poi era il motivo per cui noi eravamo soci e amici. Casolaro mi teneva gli occhi addosso con un sorriso cattivo e smargiassone, aspettando che ingerissi la prima  forchettata.  Mi fece persino segno con il bicchiere come se volesse fare un brindisi solo con me. Io risposi, maldestramente, sorridendo imbarazzato e terrorizzato.
Il resto degli invitati rispettava il tema pacchiano di tutta la festa, alle tre del pomeriggio erano tutti ubriachi, si sprecavano i cori goliardici e sconci in dialetto stretto all’indirizzo degli sposi.
Io cercavo di prendere tempo e feci segno a Maria di aspettare per mangiare anche se lei non capiva e solo protestava che aveva una fame tremenda. Mi sentivo duecento occhi addosso. Il fondo lo toccammo quando in sala fece il suo ingresso Adriano Pappalardo in persona che si diceva fosse un ospite fisso al ristorante, grande amate del canguro di Casolaro.
 Ovviamente cominciò a cantare Ricominciamo e a quel punto capii cosa era il caso che facessi. Mi alzai per andare in bagno e le mie preghiere furono esaudite. Una finestra al piano terra che dava sul cortile. Scavalcai e raggiungendo la macchina scappai via lasciando mia moglie seduta al tavolo. Da quel giorno sia lei che il sig. Casolaro li ho sentiti soltanto attraverso gli avvocati.









Tutte le dipendenze si portano dietro altre dipendenze.
 Non so come funzioni, si vede che aperta una porta se ne aprono più facilmente delle altre. Nel vizio s’impara presto ad essere indulgenti con se stessi, ci si giustifica, entri facilmente nell’ottica becera che se hai fatto trenta, puoi anche fare trentuno, solo senza che nemmeno te ne accorgi poi fai trentadue e pure trentatré.
Il peggio è quando rassegnato ti dici “vabbé ormai…” a quel punto è probabile che tu sia alla frutta.
Nel mio caso il guaio grosso era la coca.
Io credo che la cocaina sia la droga ideale per chi deve giocare: non ti stona, ti da euforia, ti toglie la stanchezza di dosso e ti fa sentire un dio. È come stare sulle montagne russe dell’emotività: Sali Sali Sali e poi scendi scendi scendi.
All’inizio è uno sfizio di una sera, che consumi con i tuoi nuovi divertentissimi amici. Venti euro, poi magari ne appari cento o duecento in due e non ti pare sta grande spesa, ma piano piano ti ritrovi il cellulare pieno di contatti, di numeri utili come il 1240 degli stupefacenti. Ovunque sei ci sta uno pronto a portarti un paio di grammi nel giro di mezz’ora.
Ci si immagina che certe persone siano sempre sconsolate e tristi, avvilite e perse nei loro casini, naturalmente questo è un lato della faccenda da cui non puoi scappare, ma il grosso del tempo, quando finisci in certi giri di merda, tu ti diverti un sacco, è per questo che poi è così difficile uscirne. Se sei dentro tiri, chiavi, ti ubriachi e giochi; se sei fuori la tua vita ti sembra divertente come osservare un coala che mangia bastoni di erba verde. Per ore.
È una questione di equilibrio, ma tu non ce l’hai.
I tuoi nuovi amiconi sono affascinanti, hanno donne belle che non scassano mai il cazzo, che non sono gelose e ti presentano le loro amiche ancora più belle. Insieme andate alle feste e finisci col chiederti dov’eri prima, quando tutta questa giostra girava senza di te.
Il gioco, le donne, la droga, ti portano un poco più vicino al tipo di persona che hai sempre voluto essere. Ti convinci che sei persino bello e se non bello almeno interessante, un tipo affascinante in cui persino le rughe hanno qualcosa da raccontare. I soldi ti escono dalle tasche come un’emorragia, da natale a ferragosto non fai altro che programmare vacanze, fine settimana e ponti così  lunghi che hai praticamente risolto il problema dello stretto di Messina senza un centimetro di cemento.
Arrivi al lavoro alle sei del pomeriggio, la bocca impastata, gli occhiali da sole e la barba di tre giorni. Ti perdi gli ordini e t’incazzi col primo dipendente che ti capita a tiro; se il tuo socio ti fa notare che sei distante, assente, sospetti che ti ha sgamato, che ti guarda con accondiscendenza, che è stufo della tua condotta, e tu lo odi perché come tutti quelli che non sono come te, non può capire, è uno sfigato che pensa solo al lavoro e tu non sei così, ti metti a bofonchiare qualcosa d’incomprensibile, prendi le chiavi della macchina e decidi che ne hai abbastanza. Ti fai una striscia piccola alla stazione di servizio e chiami qualcuno per sapere se ci si vede per la sera, poi fai una capatina alla Snai e prima di dormire ti sputtani duecento euro al poker on line fino alle  quattro del mattino. Il giorno dopo ti alzi, è la stessa vita. Quando ti accorgi che sei nella merda hai già speso un capitale e due terzi delle volte sei semplicemente rovinato.
Va così per tutti, più o meno è uguale, non c’è un cazzo da fare. Una delle cose che di solito ti sfugge è che quel manicotto di papponi, parassiti e sfruttatori col codino impomatato e la camicia aperta fino all’ombelico che sono i tuoi nuovi amici in realtà non tengono a te più di uno qualsiasi dei tuoi contatti per la droga. Vi avvinghiate gli uni agli altri per le ragioni più disparate, la più comune è che non vuoi che gli altri ne escano perché tu per primo non ce la fai.
È sempre tardi quando capisci che non ce la fai più. E più le cose vanno male e più ti fai. Sembra una banalità e sicuramente lo è, ma ho capito che parte dei segreti della vita si nasconde nei cliché.




  
 
Ero nel parcheggio di un centro commerciale quando mi hanno steso. Adesso dopo una secchiata d’acqua sporca capisco che sono in un garage. Un tizio davanti a me fuma. Ho la bocca come una nigeriana di Mondragone. Non ho mai visto prima questo tizio. Ha un vestito di merda tipo gessato, nero e bianco. Sembra Tonino Carotone.
 «Lo sai perché non mi dice di farti fuori?” dice
«gli devi un sacco di soldi. Se io ti sparo lui che ci ricava?  I suoi soldi li rivuole, ha famiglia, i figli spaccano il cazzo col motorino, coi regali alle fidanzate, e lui che gli deve dire? Mi dispiace a papà ma non posso perché ho schiattato tutti gli stronzi che ci dovevano pagare?
«È troppo comodo… Prima te li fai prestare i soldi, te li sputtani, ti
 diverti e poi schiatti, così non me li ridai? E che andiamo a capa sotta pure noi? Ne stru’?!»
Qui è quando capisco che io sono l’Italia e lui è l’Unione Europea, mi tiene in vita perché se collasso me li tiro dietro tutti. Come il Real Madrid. Così mi rendo conto che se devi fare un debito, lo devi fare enorme, ti conviene.
Tra tasse, strozzini, mia sorella, ex moglie e soci vari, in cinque anni ho accumulato una cosa come un milione di euro di debiti.
Non chiedetemi come sia potuto succedere.
Ho perso tutto. Quando il mio socio ha rilevato la mia quota della società non ha dovuto nemmeno pagarmi, è passato direttamente all’Equitalia al posto mio. Ma con lo stato ho ancora molti conti in sospeso, questioni di multe, altre tasse arretrate e l’IMU che Berlusconi mi aveva detto che la levava e poi niente, l’ho pure votato, a fammoc…
Adesso ci sta l’amico Fritz qua, Tonino, nemmeno lo so quanti soldi gli devo, ma forse non è il caso che glielo chieda, non mentre sono legato a una sedia, col volto mezzo tumefatto.
«Perché non lo vuoi pagare?» Dice quasi supplicandomi. Non riesco nemmeno a parlare, piango e basta. Non è che singhiozzo, ma piango. È che non ce la faccio più, non posso nemmeno andare in galera. Mi troverebbero anche lì, non ho scampo. Tonino è come imbarazzato dalle mie lacrime, non che non ci sia abituato, ma forse è una di quelle persone che a certe cose non si abituerà mai.
«Che cazz chiagn affa?
«Non ve li fate dare i soldi se poi non li potete restituire dico io…
«Me fat schif, tutt quant. Ti si pippat? Ti si pippat?!!!!»
Lasciandomi il bavero sputa per terra.
Poi con fare molto più sbrigativo, senza nemmeno rivolgermi lo sguardo mi slega e dice «te rong na semmana, aropp te veng afferrà e t’accir, mo me so cacat o cazz!»









Oggi sono andato a prendere mio nipote Marco, lo accompagno alle prove di teatro. Marco ha vent’anni, non ha ancora avuto nessuna esperienza significativa con la vita, ma so che ha scopato una volta, quando stava negli scout, e questo è l’importante.
È un ragazzo a posto, pulito. Una tempo mi chiamava zio, ma appena si è fatto un po’ più grande gli ho fatto capire che mi fa sentire vecchio e che non mi piace.
A modo suo è un genio, ma soprattutto è l’unico amico che mi è rimasto. Entrando in macchina urta vicino al vano portaoggetti così ci urta di proposito altre tre volte e poi si gira per dirmi:«come va?»
Io indico lo sportellino e lui, «si lo so… Sono tornati…»
Per tornati Marco intende gli atteggiamenti ossessivo compulsivi che di tanto in tanto accompagnano la sua vita dall’età di quattordici anni.
È questione di stress, credo.
«Fortunatamente» dice lui «faccio tutto solo tre volte, ci sono persone che devono farlo otto o dieci volte, sai che stress…»
«Si ok» dico io «tre, dieci, è uno stress comunque…»
«Sai chi pure aveva questo problema?
«Tesla»
«e chi è?»
«Quello della corrente alternata»
«interessante…»
«Mi prendi per il culo?»
«No»
«si»
«un po’…»
«Vaffanculo.» Marco ride, io pure, erano giorni che non succedeva.
«Che hai fatto alla faccia?» Chiede
«nient, so sbattut»
«sei sbattuto?»
«E si Marché so sbattut pecché npo esse?»
«Figurati…»
Questa del laboratorio teatrale è un’idea del suo terapista. Lui dice che incanalare le emozioni può aiutarlo a gestire meglio le situazioni di stress. Io avevo proposto la kick boxing, ma Marco è mingherlino: sua madre ha paura.
In ogni caso lui il teatro lo odia, così gli dico:«e se lo appendiamo il teatro oggi?»
«Basta che non mi porti alla Snai»
«a puttane la Snai, oggi andiamo al mare.»
Marco sorride, non parla, so che ho fatto centro perché è cattivo tempo ma lui non protesta. Nemmeno glielo richiedo, ingrano la marcia e andiamo. Per certi versi è il figlio che non ho mai avuto il coraggio di avere, abbiamo un rapporto aperto, sa tutto di me, del gioco d’azzardo e dei debiti. Solo della droga non gli ho mai detto niente, quella è una merda troppo grossa, mi vergogno e poi non voglio che si metta a fare come me. Vorrei che restasse fuori il più a lungo possibile da tutti i casini del mondo, è un ragazzo pulito Marco, un po’ chiuso, per via delle sue compulsioni. Non frequenta molto i suoi coetanei e passa un sacco di tempo a leggere.
Mentre guarda fuori dal finestrino senza rivolgermi lo sguardo dice:«lo sai che se butti del liquore su uno scorpione quello impazzisce al punto che si uccide col suo stesso pungiglione?»
«No» dico «non lo sapevo…»
Marco pensa spesso a cose così, ha la testa piena di cose così…
Quando arriviamo alla spiaggia scendiamo. Il cielo quando è nero al mare è sempre più nero  e tira vento, ma la spiaggia è sgombra e io la preferisco così. Il mare sembra un vecchio ferito, cieco e pazzo che ancora invita i nemici a farsi sotto, senza arretrare mai.
C’è un cane randagio che se ne sta per i fatti suoi, Marco lo raggiunge e lo accarezza. Solitamente i cani mi abbaiano e ringhiano, con Marco è diverso, non so perché.
Fin da piccolo le bestie gli sono sempre state amiche. Mi piace pensare che sia perché è istintivamente una brava persona e che sempre lo sarà. Quando lo guardo penso che forse se avessi avuto un figlio mio, tutto sarebbe andato diversamente, ma non lo sapremo mai.
Magari gli avrei reso la vita impossibile e adesso avrei un peso in più da portare.
È qui che ho preso la decisione, che ho valutato quantomeno la possibilità. Non vorrei mai che per farmi pressione mettessero le mani sulla mia famiglia, che se la prendessero con Marco. Non ci voglio nemmeno pensare.

  



Sono passati sette giorni dall’aggressione e so che il mio tempo è scaduto. Verranno a cercarmi, se non è oggi è domani.
Sono così rassegnato da essere quasi sereno. Esco per prendere un caffè e automaticamente prendo pure un gratta e vinci da cinque euro. Sono anni che un caffè non mi costa meno di sei euro. Mentre aspetto al banco tiro fuori una monetina, uso sempre la più piccola che ho in tasca, è un rito scaramantico che a dire il vero non mi ha portato molto lontano, eppure continuo a rispettarlo, e mi metto a grattare.
Un altro rito che continuo a perpetrare è che cancello con grande cura prima i numeri per vedere se ho vinto e poi eventualmente le cifre sotto perché se grattando le cifre vedo numeri troppo alti già lo so che non ho vinto e mi rattrista. Una volta beccai il lingotto che vuol dire prendi tutti i premi. Mi venne la tachicardia ma quando presi a grattare i premi sotto mi uscì una sfilza di cinque euro zozzosi, tutto il blocco apparai cinquanta euro: che sola e mmerd.
 Stavolta di numeri ne ho beccati due, quando già penso che sarà una fantastica coppia di cinque euro mi accorgo che gli zeri stavolta sono da cacarsi sotto. Sono due numeri da cinquecentomila euro tondi tondi. Le gambe mi si ammollano, già vedo le palme e le mignotte, le cene con Gaucci, la villa di Craxi, io e Berlusconi alla Cayman che mi spiega i segreti del bunga bunga.
Come debiti avrei praticamente la stessa cifra, ma chi se ne fotte dei debiti, io scappo e chi si è visto si è visto. Certo lo stato non è che paga subito e parte dei soldi te li da in proprietà, in premi. Se resto qua, anche riscuotendo per intero la somma sarei comunque povero. Ma come devo fare, appena lo stato mi sgama la vincita me la toglie di tasse e arretrati. Devo escogitare qualcosa, la vita è na bastarda, la più grossa vincita della mia vita e rischio di non vedere nemmeno una lira. Appena mi mettono il caffè davanti sento qualcuno che mi pressa alle spalle, quando faccio per voltarmi questo mi dice: «finisci il caffè granda lota che mo ci andiamo a fare un giro…»
È Tonino. «Esci da qua con calma e non fare cazzate, non ti voglio sparare sul marciapiedi. A vir chella machina, tu mo ce saglie e me fai capì na vot e ppe tutt che vuò fa’.»
Io comincio a camminare e con la mano in tasca mi tocco il gratta e vinci, penso che non è giusto, che la vita non può essere na merda fino a questo punto. Mi sento come se Dio mi stesse prendendo per il culo davanti a tutti i santi. Appena fuori dal bar vedo la Mercedes nera con la portiera aperta, un polacco alla guida, gli vedo solo la faccia brutta e il collo taurino.
A questo punto prendo la decisione più importante della mia vita, mi giro di scatto e mi metto a correre, corro come un pazzo e dietro di me sento Tonino che grida «Vaje, vaje, muovt!!!»
 E poi lo stridere delle gomme sull’asfalto. Cerco di perdermi tra i vicoli ma a ogni uscita me li ritrovo a tagliarmi la strada, è come se avessi un GPS nel culo.
Sono fottuto e il bello è che se mi ammazzano trovano il biglietto e si pigliano pure i soldi. Col cazzo, merda per me, merda per tutti.
Mentre corro lo tiro fuori, so che è finita, che non ci sta un cazzo da fare, così lo faccio a pezzi per sfregio e me lo mangio. Corro e ingoio, fottuto dalla paura, ma rido perché è tutto così assurdo e ridicolo e triste e che ci vuoi fare? Ci devi ridere per forza, perché la vita è verament na strunzat, come diceva Tony Pisapia nel film.
La carta si fa un blocco duro che quando provo a ingoiarlo tutto mi si blocca da qualche parte e mi soffoca.
A un certo punto mi pare di vedere la buonanima di papà, la carta vince, la carta perde, non ho mai capito come cazzo faceva…

    





                                                  FINE.

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