Ludopatico
all’ultimo stadio,
ancora
una volta quello sarebbe stato
il
suo ultimo gratta e vinci.
Vinse
un milione di euro e ingoiò il coupon
In
una sola volta…
Soffocato
dalla gioia.
Avete presente quella
teoria in base alla quale, secondo Freud, un giocatore d’azzardo gioca per
vincere ma inconsciamente fa di tutto per perdere?
Puttanate…
Perché se lo chiedete a
un giocatore, uno serio, uno malato, che gioca alle carte, ai dadi, al polo, ai
cavalli e alle vacche da corsa, quello vi dirà che vuole vincere, che non ci
sono cazzi, che se lo sente, vi dirà che è la mano buona, è sempre quella
buona, la corsa buona, l’accoppiata vincente.
Forse ci sarà da
qualche parte un tizio sfigato che si sente così tanto in colpa che per
autopunirsi ci gode a perdere, ma credetemi: questa non è la routine.
Il senso di colpa è una
componente fondamentale in questa storia, quello c’è sempre e ti accompagna,
può persino portarti al suicidio se sei fragile e non ci stai attento, ma certe
frustrazioni sono cose che subentrano dopo, quando hai già perso, perché mentre
giochi tu non ci sei, sei fuori, dimentichi tutto il prima e vedi solo il dopo.
Sarebbe importante sapersi controllare, sapersi gestire, ma mentre sei in ballo
allora è una parola, quella pallina che balla sulle caselle della roulette,
quella piccola biglia di teflon da 22 millimetri, sei tu.
Ogni essere umano di
fronte al vizio, alla debolezza, diventa innocente, si gioca tutto in una
sfogliata di carte convincendosi che non è una questione di fortuna, ma di
destrezza, di essere quelli che fotteranno stasera mentre gli altri resteranno
semplicemente fottuti.
Basta farsi un giro in
una bisca per capire di cosa parlo, alla Snai, all’ippodromo o al casinò.
In tutta la sua
umiliante nudità il campionario umano vi si dipanerà senza riserve. Ci sono
quelli che si sono appena seduti a un tavolo da poker a base cinquanta euro e
perdere a posta e in tutta fretta perché hanno sentito che se n’è appena aperto
uno da duecento; quelli che non si sanno trattenere e i punti glieli leggi in
faccia, i professionisti imperturbabili che perdono pure i BOT argentini e se
ne vanno con una flemma manco il locale fosse il loro; poi ci sono quelli che
si giocano la moglie, perché questa non è né una leggenda, né un luogo comune,
certa gente la moglie sul piatto ce l’ha messa per davvero, non so come poi
l’abbia spiegato alla consorte, ma tant’è…
I peggiori sono quelli
che buttati fuori dalla bisca alle sei del mattino si giocano sul marciapiedi
gli ultimi soldi tenuti in salvo per la benzina, se li giocano barbaramente, ad
alzata di carta, la più alta e la più bassa, una tagliata di gola.
Inevitabilmente ci sta
quello che resta a piedi e chiama l’amico che a quell’ora si sta alzando per
andare a lavorare per farsi venire a prendere, accampando le scuse più assurde.
Il gioco è un lavoro a
tempo pieno, come ogni dipendenza del resto, ci sono i soldi da rimediare, i
posti in cui andare, le persone da contattare, le scuse da accampare. È una
faticaccia, e non si capisce mai bene chi te lo faccia fare.
Alla fine non è
importante cosa ti stai giocando, come o con chi, dentro ti scatta una botta di
adrenalina, non c’è molto da spiegare, stai giocando e non ti puoi staccare, ci
sei e non ci sei, è così…
Questa storia comincia
precisamente cinque anni fa, ma se ci penso bene ha una gestazione più
profonda.
Mia madre era impiegata
alle poste, mentre mio padre di lavoro faceva le tre carte. Lui, zio Emilio e
mia zia Franca tenevano il bancariello ai Tribunali. Mio padre girava le carte,
mio zio faceva il palo e sua moglie fingeva di giocare. È una tradizione di
famiglia che poi si è persa. Mio nonno lo faceva agli americani dopo la guerra
e suo fratello preso dall’entusiasmo provò pure ad esportarlo a casa loro, a
Chicago, ma lo misero in galera per un po’, poi tornò a Napoli e si mise a fare
il meccanico. Mio padre in ogni caso lo ha fatto per anni. Prima la truffa non
era così sgamata e la gente si fermava, soprattutto gli stranieri. Non è che
fosse una cosa legale, ma si provvedeva ad allungare na mazzettella al
poliziotto e quello chiudeva un occhio.
Papà nel quartiere era
famoso, lo chiamavano il Cionco perché da piccolo aveva avuto la poliomelite e
gli era rimasta una mano più piccola, un po’ accroccata, ma la utilizzava con
una tale destrezza da tramutarla in un punto a favore negli affari perché c’era
sempre chi si distraeva e fargli distogliere l’attenzione da ciò che si sta
facendo è tutto nell’antico gioco della truffa.
Così siamo cresciuti
mia sorella e io, con lo stipendio di mamma e la piccola ditta di famiglia.
Mio padre e i miei zii
erano spesso in giro, si facevano le fiere, i gran premi, il palio di Siena, le
manifestazioni, ovunque si prevedeva ci fosse stata gente loro là stavano, a
fare lo spettacolino.
Papà cominciava a far
mulinare le carte con la mano cionca, mio zio Emilio faceva il professore che
però non puntava mai e mia zia la pollastra che nonostante fosse facilissimo
per una ragione o per l’altra perdeva sempre. Nei loro portafogli sgusciavano
fuori queste mazzette di cinquantamila lire rosa, tutte uguali, belle stirate,
che erano sempre le stesse, tra loro, che giravano, come banconote segnate da
una banca.
In realtà credo che una
formazione come questa sarebbe dovuta bastare a tenermi lontano dal vizio del
gioco, chi più di me avrebbe dovuto capire che è tutta una truffa, che chi ti
fa giocare non ci può rimettere e che in sostanza il banco non si sbanca, vince
sempre, ma come ogni giocatore anche io mi ero fatto fare fesso, quando cominci
a vincere ti senti come se non potesse mai finire, come se avessi capito il
sistema, tu da solo. Ci sono cose che stanno nel tuo sangue, ne puoi guarire,
certo, ma prima ci devi passare. Il vizio è come l’herpes e i diamanti: è per
sempre.
Prima di cadere nel
vortice mi sono laureato in economia e commercio e ho messo su un’impresa di
import-export con un amico dell’università. Commerciamo in mangimi. Quasi tutto
a base di granone. Per un periodo abbiamo fatto i soldi cavalcando l’assurda
moda dell’Australia. La gente prese ad allevare gli struzzi in Italia e noi per
primi fummo in grado di fornirgli il mangime adatto. Dopo la moda si allargò
anche alla carne di canguro e noi, ovviamente, ci siamo attrezzati per
fornirgli pure quella.
Questi allevamenti e i
locali all’australiana sembrarono una grande idea per un periodo, ma non ha
funzionato. La verità è che gli struzzi non sono uccelli, sono eredità del
paleolitico, sono dinosauri, e non è facile gestirli.
In realtà proprio alla
carne di canguro è legato uno dei miei ricordi più imbarazzanti. Purtroppo una
cosa che è importante imparare è che
ogni vizio si porta dietro tutta una serie di guai. Alla fine i debiti sono
debiti e in un modo o in un altro li devi onorare, ed è così che inizi a fare
le cazzate veramente grosse, quelle di cui ti penti.
Dovevo parecchi soldi a
un tizio per via del poker così invece di canguri, ho venduto alani congelati.
Un mio amico ne aveva
un allevamento di cui voleva disfarsi, erano alani adulti, i cuccioli è un
conto, ma di quei cavalli non ne voleva sapere niente nessuno, così ci mettemmo
d’accordo.
Li macellava lui, me li
metteva nelle scatole e io provvedevo a organizzare il viaggio col camion
frigo.
Era l’ultimo dei nostri
clienti italiani in fatto di moda all’australiana, ci era arrivato tardi,
quando tutti gli altri hanno provato e fallito, arriva lui, il solito pesce
palla che pensa di essere un unicorno.
Questo genio era di
Copertino, in Puglia. Così mi sono detto:è perfetto, proprio il pesce che mi
serviva, che ne volete che ne sappia di canguri uno che viene dal paese di
Pappalardo?
Aveva voluto fare il
ristorante esotico all’australiana? E mo magnt gl’alani…
E se li sono mangiati,
per mesi, ed erano pure contenti, solo che quell’idiota di Gi Gino che mi
forniva la carne pezzotta tanti soldi tutti insieme non li aveva visti mai,
così quando aveva finito i cani per paura che lo estromettessi dal business,
non mi disse niente. Con suo cognato andava in giro la notte a fare
l’accalappia cani.
Così va a finire che
gli escono un paio di partite miste, dimensioni diverse, carne diversa, cani
diversi, mi fa i soliti pacchetti e io che sono allo scuro di tutto prendo e
mando. Solo che a un certo punto ai copertini gli deve essere venuto un dubbio e
la fanno analizzare. E fu così che ricevetti l’invito al ristorante: sposalizio
della figlia, non potevo rifiutare.
Il mio socio aveva
insistito davvero tanto che non potetti dirgli di no. Non so se avesse pure lui
fiutato qualcosa, so solo che se la sarebbe legata al dito. Gli dovevo un
favore e lui disse che era un cliente importante, uno dei pochi che ci erano
rimasti in Italia, che in tempo di crisi ci si doveva sacrificare e poi ero
stato invitato io esplicitamente per cui non se ne poteva nemmeno discutere, ci
dovevo andare.
«E poi» disse con un sorriso che per me aveva
un che di maligno, «è
solo un matrimonio, di che hai paura?...»
E di che avevo paura?
Di niente, e perché? Io mica lo potevo immaginare che Gi Gino mi aveva tirato
il pacco, che aveva preso pure i carlini, che ci aveva messo dentro alle
scatole, tagliato a pezzi grossi, pure uno spinone. Queste sono cose che sono
venuto a sapere dopo, praticamente in tribunale. Così mi misi in macchina
insieme a mia moglie. Impostai il GPS e dopo qualche ora mi ritrovai nelle
campagne pugliesi. Al mio arrivo trovai uno di quei posti che pensi stiano solo
nei film di Altman, quei posti da rodeo che davvero dici “non è possibile a
Copertino, ma perché?”
Era un ranch, non un
semplice agriturismo, ma qualcosa stile “un
texano a Melbourne.”
C’erano i cavalli, gli
struzzi, le capre, tutti stipati in enormi recinti separati. Era l’Australia
nella testa di un copertinese che mai ci aveva messo piede. Il sig. Casolaro al
massimo era stato a Foggia e nemmeno gli era piaciuto, dell’Australia gliene
aveva parlato un cugino da parte di padre, lui gli aveva raccontato storie
mirabolanti di progresso e successo alla portata di tutti.
Giuro che all’ingresso
c’era un enorme canguro gigante di cartapesta con gli occhi luminosi. Era
uguale al topo saggio delle tartarughe ninja, solo che era nudo, senza kimono.
Era evidente che il
sig. Casolaro ci aveva preso la fissazione coi canguri e forse proprio perché
lo avevo colpito su quella sua passione se l’era presa così tanto, non credo
che fosse per i soldi, Casolaro ne aveva davvero tanti, e nemmeno perché, come
aveva detto al giudice, avevo avvelenato i suoi preziosi e affezionati clienti,
quelli li avvelenava già di suo, con tutte le altre portate.
Arrivai direttamente al
ricevimento, saltando la messa. Trattai di merda mia moglie per tutto il
viaggio. Certo il nostro matrimonio era già in crisi, le troppe preoccupazioni
di cui Maria era allo scuro mi tenevano sempre più a distanza. Sono sempre
stato un uomo privo di tatto. Un pappone con la Mercedes sempre incline al
chissenefrega.
Sposata l’avevo sposata, perché era abbastanza
bella e aveva i soldi, una donna senza grandi aspirazioni che avevo riempito di
corna già il primo mese di fidanzamento, lei stava a Caserta dai suoi e io
abitavo a Napoli, un paio di volte ero stato colto sul fatto ma io avevo sempre
negato tutto. Suo padre era un medico affermato a capo di una catena di
laboratori di analisi sparsi un po’ ovunque.
I primi capitali per la
mia azienda me li aveva forniti lui e questo era stato quando eravamo ancora
solo fidanzati. Da lì il passo per formare una famiglia nostra è stato breve,
fu come e più di una promessa di matrimonio, non mi potevo più smarcare. Avrei
dovuto ridargli subito tutti i soldi. Ma glieli ridiedi, poco alla volta nel
tempo. È stato l’unico debito che in vita mia sono riuscito ad onorare.
All’arrivo al
ristorante il sig. Casolare ci tenne personalmente a venirci a salutare al
tavolo. Era la prima volta che lo vedevo di persona. Un cafone arricchito
persino più cafone di me. Un omone più largo che alto, piazzato come un masso
di sei tonnellate in campo aperto. Una di quelle cose che ovunque le metti
stona.
Aveva persino il
cappello alla J. R. con il laccetto alla texana invece della cravatta. Da come
mi parlava e mi stringeva il collo, quasi fossimo amici, io capii che c’era
molto che non andava.
Non mi sentivo a mio
agio e mia moglie se ne accorse immediatamente. Cominciavo a sudare. Poi la
cosa fu chiara, nonostante non ci fosse nel menu, a me e alla mia signora come
seconda portata fu servita la famosa carne di canguro. Lui disse che si era
preso quella libertà perché me la voleva far assaggiare, perché era squisita e
poi era il motivo per cui noi eravamo soci e amici. Casolaro mi teneva gli
occhi addosso con un sorriso cattivo e smargiassone, aspettando che ingerissi
la prima forchettata. Mi fece persino segno con il bicchiere come se
volesse fare un brindisi solo con me. Io risposi, maldestramente, sorridendo imbarazzato
e terrorizzato.
Il resto degli invitati
rispettava il tema pacchiano di tutta la festa, alle tre del pomeriggio erano
tutti ubriachi, si sprecavano i cori goliardici e sconci in dialetto stretto
all’indirizzo degli sposi.
Io cercavo di prendere
tempo e feci segno a Maria di aspettare per mangiare anche se lei non capiva e
solo protestava che aveva una fame tremenda. Mi sentivo duecento occhi addosso.
Il fondo lo toccammo quando in sala fece il suo ingresso Adriano Pappalardo in
persona che si diceva fosse un ospite fisso al ristorante, grande amate del
canguro di Casolaro.
Ovviamente cominciò a cantare Ricominciamo e a
quel punto capii cosa era il caso che facessi. Mi alzai per andare in bagno e
le mie preghiere furono esaudite. Una finestra al piano terra che dava sul cortile.
Scavalcai e raggiungendo la macchina scappai via lasciando mia moglie seduta al
tavolo. Da quel giorno sia lei che il sig. Casolaro li ho sentiti soltanto
attraverso gli avvocati.
Tutte le dipendenze si
portano dietro altre dipendenze.
Non so come funzioni, si vede che aperta una
porta se ne aprono più facilmente delle altre. Nel vizio s’impara presto ad
essere indulgenti con se stessi, ci si giustifica, entri facilmente nell’ottica
becera che se hai fatto trenta, puoi anche fare trentuno, solo senza che
nemmeno te ne accorgi poi fai trentadue e pure trentatré.
Il peggio è quando
rassegnato ti dici “vabbé ormai…” a quel punto è probabile che tu sia alla
frutta.
Nel mio caso il guaio
grosso era la coca.
Io credo che la cocaina
sia la droga ideale per chi deve giocare: non ti stona, ti da euforia, ti
toglie la stanchezza di dosso e ti fa sentire un dio. È come stare sulle
montagne russe dell’emotività: Sali Sali Sali e poi scendi scendi scendi.
All’inizio è uno sfizio
di una sera, che consumi con i tuoi nuovi divertentissimi amici. Venti euro,
poi magari ne appari cento o duecento in due e non ti pare sta grande spesa, ma
piano piano ti ritrovi il cellulare pieno di contatti, di numeri utili come il
1240 degli stupefacenti. Ovunque sei ci sta uno pronto a portarti un paio di
grammi nel giro di mezz’ora.
Ci si immagina che
certe persone siano sempre sconsolate e tristi, avvilite e perse nei loro
casini, naturalmente questo è un lato della faccenda da cui non puoi scappare,
ma il grosso del tempo, quando finisci in certi giri di merda, tu ti diverti un
sacco, è per questo che poi è così difficile uscirne. Se sei dentro tiri,
chiavi, ti ubriachi e giochi; se sei fuori la tua vita ti sembra divertente
come osservare un coala che mangia bastoni di erba verde. Per ore.
È una questione di
equilibrio, ma tu non ce l’hai.
I tuoi nuovi amiconi
sono affascinanti, hanno donne belle che non scassano mai il cazzo, che non
sono gelose e ti presentano le loro amiche ancora più belle. Insieme andate
alle feste e finisci col chiederti dov’eri prima, quando tutta questa giostra
girava senza di te.
Il gioco, le donne, la
droga, ti portano un poco più vicino al tipo di persona che hai sempre voluto
essere. Ti convinci che sei persino bello e se non bello almeno interessante,
un tipo affascinante in cui persino le rughe hanno qualcosa da raccontare. I
soldi ti escono dalle tasche come un’emorragia, da natale a ferragosto non fai
altro che programmare vacanze, fine settimana e ponti così lunghi che hai praticamente risolto il
problema dello stretto di Messina senza un centimetro di cemento.
Arrivi al lavoro alle
sei del pomeriggio, la bocca impastata, gli occhiali da sole e la barba di tre
giorni. Ti perdi gli ordini e t’incazzi col primo dipendente che ti capita a
tiro; se il tuo socio ti fa notare che sei distante, assente, sospetti che ti
ha sgamato, che ti guarda con accondiscendenza, che è stufo della tua condotta,
e tu lo odi perché come tutti quelli che non sono come te, non può capire, è
uno sfigato che pensa solo al lavoro e tu non sei così, ti metti a bofonchiare
qualcosa d’incomprensibile, prendi le chiavi della macchina e decidi che ne hai
abbastanza. Ti fai una striscia piccola alla stazione di servizio e chiami
qualcuno per sapere se ci si vede per la sera, poi fai una capatina alla Snai e
prima di dormire ti sputtani duecento euro al poker on line fino alle quattro del mattino. Il giorno dopo ti alzi,
è la stessa vita. Quando ti accorgi che sei nella merda hai già speso un
capitale e due terzi delle volte sei semplicemente rovinato.
Va così per tutti, più
o meno è uguale, non c’è un cazzo da fare. Una delle cose che di solito ti
sfugge è che quel manicotto di papponi, parassiti e sfruttatori col codino
impomatato e la camicia aperta fino all’ombelico che sono i tuoi nuovi amici in
realtà non tengono a te più di uno qualsiasi dei tuoi contatti per la droga. Vi
avvinghiate gli uni agli altri per le ragioni più disparate, la più comune è
che non vuoi che gli altri ne escano perché tu per primo non ce la fai.
È sempre tardi quando
capisci che non ce la fai più. E più le cose vanno male e più ti fai. Sembra
una banalità e sicuramente lo è, ma ho capito che parte dei segreti della vita
si nasconde nei cliché.
Ero nel parcheggio di
un centro commerciale quando mi hanno steso. Adesso dopo una secchiata d’acqua
sporca capisco che sono in un garage. Un tizio davanti a me fuma. Ho la bocca
come una nigeriana di Mondragone. Non ho mai visto prima questo tizio. Ha un
vestito di merda tipo gessato, nero e bianco. Sembra Tonino Carotone.
«Lo sai perché non mi dice di farti
fuori?” dice
«gli devi un sacco di soldi. Se io ti
sparo lui che ci ricava? I suoi soldi li
rivuole, ha famiglia, i figli spaccano il cazzo col motorino, coi regali alle
fidanzate, e lui che gli deve dire? Mi dispiace a papà ma non posso perché ho
schiattato tutti gli stronzi che ci dovevano pagare?
«È troppo comodo… Prima te li fai
prestare i soldi, te li sputtani, ti
diverti e poi schiatti, così non me li ridai?
E che andiamo a capa sotta pure noi? Ne stru’?!»
Qui è quando capisco
che io sono l’Italia e lui è l’Unione Europea, mi tiene in vita perché se
collasso me li tiro dietro tutti. Come il Real Madrid. Così mi rendo conto che
se devi fare un debito, lo devi fare enorme, ti conviene.
Tra tasse, strozzini,
mia sorella, ex moglie e soci vari, in cinque anni ho accumulato una cosa come
un milione di euro di debiti.
Non chiedetemi come sia
potuto succedere.
Ho perso tutto. Quando
il mio socio ha rilevato la mia quota della società non ha dovuto nemmeno
pagarmi, è passato direttamente all’Equitalia al posto mio. Ma con lo stato ho
ancora molti conti in sospeso, questioni di multe, altre tasse arretrate e
l’IMU che Berlusconi mi aveva detto che la levava e poi niente, l’ho pure
votato, a fammoc…
Adesso ci sta l’amico
Fritz qua, Tonino, nemmeno lo so quanti soldi gli devo, ma forse non è il caso
che glielo chieda, non mentre sono legato a una sedia, col volto mezzo
tumefatto.
«Perché non lo vuoi pagare?» Dice quasi
supplicandomi. Non riesco nemmeno a parlare, piango e basta. Non è che
singhiozzo, ma piango. È che non ce la faccio più, non posso nemmeno andare in
galera. Mi troverebbero anche lì, non ho scampo. Tonino è come imbarazzato
dalle mie lacrime, non che non ci sia abituato, ma forse è una di quelle
persone che a certe cose non si abituerà mai.
«Che cazz chiagn affa?
«Non ve li fate dare i soldi se poi non
li potete restituire dico io…
«Me fat schif, tutt quant. Ti
si pippat? Ti si pippat?!!!!»
Lasciandomi il bavero
sputa per terra.
Poi con fare molto più
sbrigativo, senza nemmeno rivolgermi lo sguardo mi slega e dice «te rong na semmana,
aropp te veng afferrà e t’accir, mo me so cacat o cazz!»
Oggi sono andato a
prendere mio nipote Marco, lo accompagno alle prove di teatro. Marco ha vent’anni,
non ha ancora avuto nessuna esperienza significativa con la vita, ma so che ha
scopato una volta, quando stava negli scout, e questo è l’importante.
È un ragazzo a posto,
pulito. Una tempo mi chiamava zio, ma appena si è fatto un po’ più grande gli
ho fatto capire che mi fa sentire vecchio e che non mi piace.
A modo suo è un genio,
ma soprattutto è l’unico amico che mi è rimasto. Entrando in macchina urta
vicino al vano portaoggetti così ci urta di proposito altre tre volte e poi si
gira per dirmi:«come
va?»
Io indico lo
sportellino e lui, «si
lo so… Sono tornati…»
Per tornati Marco
intende gli atteggiamenti ossessivo compulsivi che di tanto in tanto
accompagnano la sua vita dall’età di quattordici anni.
È questione di stress,
credo.
«Fortunatamente» dice lui «faccio tutto solo tre
volte, ci sono persone che devono farlo otto o dieci volte, sai che stress…»
«Si ok» dico io «tre, dieci, è uno stress comunque…»
«Sai chi pure aveva questo problema?
«Tesla»
«e chi è?»
«Quello della corrente alternata»
«interessante…»
«Mi prendi per il culo?»
«No»
«si»
«un po’…»
«Vaffanculo.» Marco ride, io pure,
erano giorni che non succedeva.
«Che hai fatto alla faccia?» Chiede
«nient, so sbattut»
«sei sbattuto?»
«E si Marché so sbattut pecché npo esse?»
«Figurati…»
Questa del laboratorio
teatrale è un’idea del suo terapista. Lui dice che incanalare le emozioni può
aiutarlo a gestire meglio le situazioni di stress. Io avevo proposto la kick
boxing, ma Marco è mingherlino: sua madre ha paura.
In ogni caso lui il
teatro lo odia, così gli dico:«e
se lo appendiamo il teatro oggi?»
«Basta che non mi porti alla Snai»
«a puttane la Snai, oggi andiamo al mare.»
Marco sorride, non
parla, so che ho fatto centro perché è cattivo tempo ma lui non protesta.
Nemmeno glielo richiedo, ingrano la marcia e andiamo. Per certi versi è il
figlio che non ho mai avuto il coraggio di avere, abbiamo un rapporto aperto,
sa tutto di me, del gioco d’azzardo e dei debiti. Solo della droga non gli ho
mai detto niente, quella è una merda troppo grossa, mi vergogno e poi non
voglio che si metta a fare come me. Vorrei che restasse fuori il più a lungo
possibile da tutti i casini del mondo, è un ragazzo pulito Marco, un po’
chiuso, per via delle sue compulsioni. Non frequenta molto i suoi coetanei e
passa un sacco di tempo a leggere.
Mentre guarda fuori dal
finestrino senza rivolgermi lo sguardo dice:«lo sai che se butti del liquore su uno scorpione quello
impazzisce al punto che si uccide col suo stesso pungiglione?»
«No» dico «non lo sapevo…»
Marco pensa spesso a
cose così, ha la testa piena di cose così…
Quando arriviamo alla
spiaggia scendiamo. Il cielo quando è nero al mare è sempre più nero e tira vento, ma la spiaggia è sgombra e io
la preferisco così. Il mare sembra un vecchio ferito, cieco e pazzo che ancora
invita i nemici a farsi sotto, senza arretrare mai.
C’è un cane randagio
che se ne sta per i fatti suoi, Marco lo raggiunge e lo accarezza. Solitamente
i cani mi abbaiano e ringhiano, con Marco è diverso, non so perché.
Fin da piccolo le
bestie gli sono sempre state amiche. Mi piace pensare che sia perché è
istintivamente una brava persona e che sempre lo sarà. Quando lo guardo penso
che forse se avessi avuto un figlio mio, tutto sarebbe andato diversamente, ma
non lo sapremo mai.
Magari gli avrei reso
la vita impossibile e adesso avrei un peso in più da portare.
È qui che ho preso la
decisione, che ho valutato quantomeno la possibilità. Non vorrei mai che per
farmi pressione mettessero le mani sulla mia famiglia, che se la prendessero
con Marco. Non ci voglio nemmeno pensare.
Sono passati sette
giorni dall’aggressione e so che il mio tempo è scaduto. Verranno a cercarmi,
se non è oggi è domani.
Sono così rassegnato da
essere quasi sereno. Esco per prendere un caffè e automaticamente prendo pure
un gratta e vinci da cinque euro. Sono anni che un caffè non mi costa meno di
sei euro. Mentre aspetto al banco tiro fuori una monetina, uso sempre la più
piccola che ho in tasca, è un rito scaramantico che a dire il vero non mi ha
portato molto lontano, eppure continuo a rispettarlo, e mi metto a grattare.
Un altro rito che
continuo a perpetrare è che cancello con grande cura prima i numeri per vedere
se ho vinto e poi eventualmente le cifre sotto perché se grattando le cifre
vedo numeri troppo alti già lo so che non ho vinto e mi rattrista. Una volta
beccai il lingotto che vuol dire prendi tutti i premi. Mi venne la tachicardia
ma quando presi a grattare i premi sotto mi uscì una sfilza di cinque euro
zozzosi, tutto il blocco apparai cinquanta euro: che sola e mmerd.
Stavolta di numeri ne ho beccati due, quando
già penso che sarà una fantastica coppia di cinque euro mi accorgo che gli zeri
stavolta sono da cacarsi sotto. Sono due numeri da cinquecentomila euro tondi
tondi. Le gambe mi si ammollano, già vedo le palme e le mignotte, le cene con
Gaucci, la villa di Craxi, io e Berlusconi alla Cayman che mi spiega i segreti
del bunga bunga.
Come debiti avrei
praticamente la stessa cifra, ma chi se ne fotte dei debiti, io scappo e chi si
è visto si è visto. Certo lo stato non è che paga subito e parte dei soldi te
li da in proprietà, in premi. Se resto qua, anche riscuotendo per intero la
somma sarei comunque povero. Ma come devo fare, appena lo stato mi sgama la
vincita me la toglie di tasse e arretrati. Devo escogitare qualcosa, la vita è
na bastarda, la più grossa vincita della mia vita e rischio di non vedere
nemmeno una lira. Appena mi mettono il caffè davanti sento qualcuno che mi
pressa alle spalle, quando faccio per voltarmi questo mi dice: «finisci il caffè granda
lota che mo ci andiamo a fare un giro…»
È Tonino. «Esci da qua con calma e
non fare cazzate, non ti voglio sparare sul marciapiedi. A vir chella machina,
tu mo ce saglie e me fai capì na vot e ppe tutt che vuò fa’.»
Io comincio a camminare
e con la mano in tasca mi tocco il gratta e vinci, penso che non è giusto, che
la vita non può essere na merda fino a questo punto. Mi sento come se Dio mi
stesse prendendo per il culo davanti a tutti i santi. Appena fuori dal bar vedo
la Mercedes nera con la portiera aperta, un polacco alla guida, gli vedo solo
la faccia brutta e il collo taurino.
A questo punto prendo
la decisione più importante della mia vita, mi giro di scatto e mi metto a
correre, corro come un pazzo e dietro di me sento Tonino che grida «Vaje, vaje, muovt!!!»
E poi lo stridere delle gomme sull’asfalto.
Cerco di perdermi tra i vicoli ma a ogni uscita me li ritrovo a tagliarmi la
strada, è come se avessi un GPS nel culo.
Sono fottuto e il bello
è che se mi ammazzano trovano il biglietto e si pigliano pure i soldi. Col
cazzo, merda per me, merda per tutti.
Mentre corro lo tiro
fuori, so che è finita, che non ci sta un cazzo da fare, così lo faccio a pezzi
per sfregio e me lo mangio. Corro e ingoio, fottuto dalla paura, ma rido perché
è tutto così assurdo e ridicolo e triste e che ci vuoi fare? Ci devi ridere per
forza, perché la vita è verament na strunzat, come diceva Tony Pisapia nel film.
La carta si fa un
blocco duro che quando provo a ingoiarlo tutto mi si blocca da qualche parte e
mi soffoca.
A un certo punto mi
pare di vedere la buonanima di papà, la carta vince, la carta perde, non ho mai
capito come cazzo faceva…
FINE.
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