giovedì 18 aprile 2013

Suicidi Squisiti n°14 (Una morte pulita...)


Aveva una fobia per i bagni sporchi
figurarsi trovarne uno all’ospedale
dove si era andata a curare una cisti.
Non resistette, aprì la finestra
e volò giù dal terzo piano.



Negli ultimi tre anni era entrata e uscita dall’ospedale così tante volte che ormai gli infermieri la salutavano per nome. Non era una cosa che le faceva piacere, che la faceva sentire esclusiva. Gli ospedali non sono resort di lusso in cui essere riconosciuti può dare alla testa, un ospedale è un ospedale, non c’è da fare tante storie.
Tre tentati suicidi, nessuno andato a buon fine, le visite psichiatriche  e adesso quella piccola cisti sullo sterno.
Per una volta vi era entrata per qualcosa che chiunque avrebbe potuto avere e avrebbe voluto un grosso cartello sulla testa con su scritto: È SOLO UNA CISTI! Perché non le era piaciuta la faccia che un infermiere aveva fatto nel vederla arrivare, che sembrava dire: sei sempre qui e non muori mai.
 Da quando uno strano senso di sporco si era impossessata di lei la sua vita era compromessa. Ormai ne era come ossessionata.
C’era stata questa pubblicità in cui un prodotto per la casa puliva il pavimento e si vedeva questa animazione in cui brandelli di cose marroni grosse come fagioli scivolavano via, sciacquate dal liquido verde. Se ne stava davanti alla televisione una sera e quell’immagine la catapultò in un vortice da cui non era più riuscita ad uscire. Era come se vedesse quelle piccole sanguisughe marroni ovunque si posassero i suoi occhi.  Quei minuscoli pezzi di merda piano piano le avevano impedito di toccare qualunque cosa. Tutto era venuto a galla per sottrazione. Aveva cominciato lentamente a non fare più delle cose. La prima era stato andare in giro scalza per casa. Il che le era sempre piaciuto, fin da bambina, nonostante gli estenuanti rimproveri di sua madre, eppure adesso sarebbe stata felice di vedere che non ci riusciva.
In breve tempo era finita a lavare il pavimento con uno spazzolino per dentiere dalle setole dure, come aveva visto fare nei film americani, con i soldati in punizione a pulire le latrine. Mentre se ne stava stesa sul pavimento le era venuto da vomitare, ma aveva continuato, come una missione. Successivamente aveva sentito la necessità di mettersi dei guanti di plastica quando usciva di casa. Le mani le si erano screpolate diventando rosse a furia di lavarle con la candeggina.
Era come se tutto fosse contaminato e purulento.
Quella vita era diventata insopportabile così si era tagliata le vene. Quando all’ospedale videro il taglio orizzontale pensarono che fosse solo un avvertimento, per farsi notare, la verità è che non sapeva che il modo giusto fosse in verticale, tranciando la vena dal polso, a salire, verso l’omero.  Non esiste un manuale per suicidi, ma dovrebbero scriverlo, si disse.
Si ricordava che prima di mettere l’acqua nella vasca per stendersi e morire, l’aveva sterilizzata col fuoco. Vi aveva spruzzato l’alcool etilico e poi aveva acceso la fiamma. Sapeva che non avesse poi molto senso che fosse sporca o pulita se tanto ci doveva morire, ma era stato più forte di lei. E forse era vero, magari non era poi così convinta che quella volta avesse voluto farla finita.
Eppure non ce la faceva più a vivere una vita in cui persino l’aria le inondava i polmoni di germi. Aveva preso a respirare piano, evitando i respiri profondi. Sembrava avere l’asma, ma non l’aveva. Suo marito la esortava energicamente a smetterla con quelle fissazioni, lo mettevano a disagio, ma lui non capiva, era troppo stupido per rendersene conto.
Il secondo tentativo era stato con le pillole, ma dopo averne ingurgitate otto gli era venuto il pensiero che fossero sporche, si era immaginata la fabbrica e i topi che depositavano i loro piccoli escrementi sulle montagne di capsule ammassate; le era venuto il disgusto e aveva vomitato tutto. Prima che potessero farle effetto. La questione a un certo punto non era più vivere o morire, forse, ma non stare male, di quello aveva una paura fottuta.
La terza volta era stata quella più goffa di tutte e se ci pensava le venire persino da ridere. Si era messa un sacchetto di plastica sulla testa e aveva provato a soffocarsi, inutile dire che si era ritrovata a pensare a tutti quei germi sulla sua faccia e non era riuscita a finire il lavoro.
Se ci pensava ciò che le impediva di vivere le aveva salvato la vita per ben tre volte, e anche questa era una cosa che la faceva sorridere.
Vedeva con chiarezza la disperazione di suo marito, un uomo semplice, che faceva il metronotte, che si preoccupava per lei.
Le dispiaceva, non avrebbe voluto farlo soffrire, ma non poteva farci niente. Non riuscivano più nemmeno ad andare a letto insieme. Il solo contatto con un altro corpo la faceva stare male. Per lei persone e oggetti altro non erano che babilonie in cui miliardi di piccoli esseri putrescenti proliferavano e si moltiplicavano senza sosta.
 Negli ultimi tempi aveva sperato che si fosse trovato un’amante, che la lasciasse stare, tale era il punto cui era giunta, le condizioni della sua resa.
Nemmeno entrare in cura da uno psichiatra aveva funzionato. Il suo dottore era stato un uomo sulla cinquantina, gentile e distinto, che la faceva sentire ridicola tutte le volte che la guardava. Portava spessi occhiali fuori moda, con la montatura di corno da cui spuntavano nuvole grigie di sopracciglia così folte da farlo sembrare un grinch.
Un uomo che sarebbe stato difficile immaginarselo da piccolo, come se  fosse sempre stato così, nato uomo, cresciuto con la stessa montatura d’occhiali sulla faccia, solo più basso e con le bretelle.
Avevano parlato, a un certo punto sembrava persino funzionare, non si era tolta i guanti nemmeno una volta in sua presenza ma a casa aveva ricominciato a mangiare. In qualche modo era tornata in lei e in suo marito una certa speranza di guarigione, ma un giorno entrando nello studio lo aveva sorpreso con un dito nel naso che per la fretta aveva nascosto sotto alla scrivania. Per tutta la durata della seduta non fece altro che pensare a quella scrivania, alla parte sottostante e alle caccole. Così aveva deliberatamente cominciato a parlargli dei banchi di scuola, delle gomme attaccate sotto e a quanto le facessero schifo. Non tornò mai più, non poteva. Un altro tentativo fallito. A cambiare terapista nemmeno ci pensava, si era rassegnata.
Una notte aveva sognato di visitare Plutone, un posto così freddo che i batteri non si formavano nemmeno. Un posto in cui gli abitanti erano delle strane creature alte sessanta centimetri, con gli occhi grandi e neri, le bocche piccole e il corpo luminescente. Le loro case erano asettiche e sterili come sale operatorie, a forma di sfera, senza angoli in cui si sarebbe potuta formare la polvere, lo sporco e la muffa.
Quegli esseri erano gli unici a darle ragione, le avevano fatto capire che non era pazza, pazzi erano gli altri che non si rendevano conto in che stato immondo e infetto vivessero sulla terra. Al risveglio si era sentita triste e sola, i piccoli troll di Plutone l’avevano abbandonata. Quel sogno non si era più ripetuto ma era stato così vivido che per qualche giorno si era chiesta se non fosse stato tutto vero.
Adesso stava in ospedale, l’avevano operata, era andato tutto bene e quel giorno stesso l’avrebbero dimessa.
Era stata lontano da casa per trentasei ore e inorridiva all’idea di rimettere piede in casa sua. Chissà come gliel’avrebbe fatta trovare suo marito. Sapeva che non aveva spolverato nemmeno una volta, che non aveva lavato il bagno e non aveva sterilizzato le stoviglie. Andò in bagno e notò una piccola macchia marrone sul fondo del water, oltre l’acqua. Non ci aveva fatto caso prima, ma era lì. Doveva fare pipì ma non osava sedersi. Le veniva quasi da soffocare. Cercò di forzarsi ma era inutile. Non ce la faceva, stava per scoppiare. Farsela addosso sarebbe stato anche peggio.
Aprì la finestra, la strada era lontanissima, e da così lontano non riusciva a vederne lo sporco questa volta.


Aldo Consoli.

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