Aveva
una fobia per i bagni sporchi
figurarsi
trovarne uno all’ospedale
dove
si era andata a curare una cisti.
Non
resistette, aprì la finestra
e
volò giù dal terzo piano.
Negli ultimi tre anni
era entrata e uscita dall’ospedale così tante volte che ormai gli infermieri la
salutavano per nome. Non era una cosa che le faceva piacere, che la faceva
sentire esclusiva. Gli ospedali non sono resort di lusso in cui essere
riconosciuti può dare alla testa, un ospedale è un ospedale, non c’è da fare
tante storie.
Tre tentati suicidi,
nessuno andato a buon fine, le visite psichiatriche e adesso quella piccola cisti sullo sterno.
Per una volta vi era
entrata per qualcosa che chiunque avrebbe potuto avere e avrebbe voluto un
grosso cartello sulla testa con su scritto: È SOLO UNA CISTI! Perché non le era
piaciuta la faccia che un infermiere aveva fatto nel vederla arrivare, che
sembrava dire: sei sempre qui e non muori mai.
Da quando uno strano senso di sporco si era
impossessata di lei la sua vita era compromessa. Ormai ne era come
ossessionata.
C’era stata questa
pubblicità in cui un prodotto per la casa puliva il pavimento e si vedeva
questa animazione in cui brandelli di cose marroni grosse come fagioli
scivolavano via, sciacquate dal liquido verde. Se ne stava davanti alla
televisione una sera e quell’immagine la catapultò in un vortice da cui non era
più riuscita ad uscire. Era come se vedesse quelle piccole sanguisughe marroni
ovunque si posassero i suoi occhi. Quei
minuscoli pezzi di merda piano piano le avevano impedito di toccare qualunque
cosa. Tutto era venuto a galla per sottrazione. Aveva cominciato lentamente a
non fare più delle cose. La prima era stato andare in giro scalza per casa. Il
che le era sempre piaciuto, fin da bambina, nonostante gli estenuanti
rimproveri di sua madre, eppure adesso sarebbe stata felice di vedere che non
ci riusciva.
In breve tempo era
finita a lavare il pavimento con uno spazzolino per dentiere dalle setole dure,
come aveva visto fare nei film americani, con i soldati in punizione a pulire
le latrine. Mentre se ne stava stesa sul pavimento le era venuto da vomitare,
ma aveva continuato, come una missione. Successivamente aveva sentito la
necessità di mettersi dei guanti di plastica quando usciva di casa. Le mani le
si erano screpolate diventando rosse a furia di lavarle con la candeggina.
Era come se tutto fosse
contaminato e purulento.
Quella vita era
diventata insopportabile così si era tagliata le vene. Quando all’ospedale
videro il taglio orizzontale pensarono che fosse solo un avvertimento, per
farsi notare, la verità è che non sapeva che il modo giusto fosse in verticale,
tranciando la vena dal polso, a salire, verso l’omero. Non esiste un manuale per suicidi, ma
dovrebbero scriverlo, si disse.
Si ricordava che prima
di mettere l’acqua nella vasca per stendersi e morire, l’aveva sterilizzata col
fuoco. Vi aveva spruzzato l’alcool etilico e poi aveva acceso la fiamma. Sapeva
che non avesse poi molto senso che fosse sporca o pulita se tanto ci doveva
morire, ma era stato più forte di lei. E forse era vero, magari non era poi
così convinta che quella volta avesse voluto farla finita.
Eppure non ce la faceva
più a vivere una vita in cui persino l’aria le inondava i polmoni di germi.
Aveva preso a respirare piano, evitando i respiri profondi. Sembrava avere
l’asma, ma non l’aveva. Suo marito la esortava energicamente a smetterla con
quelle fissazioni, lo mettevano a disagio, ma lui non capiva, era troppo
stupido per rendersene conto.
Il secondo tentativo
era stato con le pillole, ma dopo averne ingurgitate otto gli era venuto il
pensiero che fossero sporche, si era immaginata la fabbrica e i topi che
depositavano i loro piccoli escrementi sulle montagne di capsule ammassate; le
era venuto il disgusto e aveva vomitato tutto. Prima che potessero farle
effetto. La questione a un certo punto non era più vivere o morire, forse, ma
non stare male, di quello aveva una paura fottuta.
La terza volta era
stata quella più goffa di tutte e se ci pensava le venire persino da ridere. Si
era messa un sacchetto di plastica sulla testa e aveva provato a soffocarsi,
inutile dire che si era ritrovata a pensare a tutti quei germi sulla sua faccia
e non era riuscita a finire il lavoro.
Se ci pensava ciò che
le impediva di vivere le aveva salvato la vita per ben tre volte, e anche
questa era una cosa che la faceva sorridere.
Vedeva con chiarezza la
disperazione di suo marito, un uomo semplice, che faceva il metronotte, che si
preoccupava per lei.
Le dispiaceva, non
avrebbe voluto farlo soffrire, ma non poteva farci niente. Non riuscivano più
nemmeno ad andare a letto insieme. Il solo contatto con un altro corpo la
faceva stare male. Per lei persone e oggetti altro non erano che babilonie in
cui miliardi di piccoli esseri putrescenti proliferavano e si moltiplicavano
senza sosta.
Negli ultimi tempi aveva sperato che si fosse
trovato un’amante, che la lasciasse stare, tale era il punto cui era giunta, le
condizioni della sua resa.
Nemmeno entrare in cura
da uno psichiatra aveva funzionato. Il suo dottore era stato un uomo sulla
cinquantina, gentile e distinto, che la faceva sentire ridicola tutte le volte
che la guardava. Portava spessi occhiali fuori moda, con la montatura di corno
da cui spuntavano nuvole grigie di sopracciglia così folte da farlo sembrare un
grinch.
Un uomo che sarebbe
stato difficile immaginarselo da piccolo, come se fosse sempre stato così, nato uomo, cresciuto
con la stessa montatura d’occhiali sulla faccia, solo più basso e con le
bretelle.
Avevano parlato, a un
certo punto sembrava persino funzionare, non si era tolta i guanti nemmeno una
volta in sua presenza ma a casa aveva ricominciato a mangiare. In qualche modo
era tornata in lei e in suo marito una certa speranza di guarigione, ma un
giorno entrando nello studio lo aveva sorpreso con un dito nel naso che per la
fretta aveva nascosto sotto alla scrivania. Per tutta la durata della seduta
non fece altro che pensare a quella scrivania, alla parte sottostante e alle
caccole. Così aveva deliberatamente cominciato a parlargli dei banchi di
scuola, delle gomme attaccate sotto e a quanto le facessero schifo. Non tornò
mai più, non poteva. Un altro tentativo fallito. A cambiare terapista nemmeno
ci pensava, si era rassegnata.
Una notte aveva sognato
di visitare Plutone, un posto così freddo che i batteri non si formavano
nemmeno. Un posto in cui gli abitanti erano delle strane creature alte sessanta
centimetri, con gli occhi grandi e neri, le bocche piccole e il corpo
luminescente. Le loro case erano asettiche e sterili come sale operatorie, a
forma di sfera, senza angoli in cui si sarebbe potuta formare la polvere, lo
sporco e la muffa.
Quegli esseri erano gli
unici a darle ragione, le avevano fatto capire che non era pazza, pazzi erano
gli altri che non si rendevano conto in che stato immondo e infetto vivessero
sulla terra. Al risveglio si era sentita triste e sola, i piccoli troll di
Plutone l’avevano abbandonata. Quel sogno non si era più ripetuto ma era stato
così vivido che per qualche giorno si era chiesta se non fosse stato tutto
vero.
Adesso stava in
ospedale, l’avevano operata, era andato tutto bene e quel giorno stesso
l’avrebbero dimessa.
Era stata lontano da
casa per trentasei ore e inorridiva all’idea di rimettere piede in casa sua.
Chissà come gliel’avrebbe fatta trovare suo marito. Sapeva che non aveva
spolverato nemmeno una volta, che non aveva lavato il bagno e non aveva
sterilizzato le stoviglie. Andò in bagno e notò una piccola macchia marrone sul
fondo del water, oltre l’acqua. Non ci aveva fatto caso prima, ma era lì.
Doveva fare pipì ma non osava sedersi. Le veniva quasi da soffocare. Cercò di
forzarsi ma era inutile. Non ce la faceva, stava per scoppiare. Farsela addosso
sarebbe stato anche peggio.
Aprì la finestra, la
strada era lontanissima, e da così lontano non riusciva a vederne lo sporco
questa volta.
Aldo Consoli.
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