lunedì 1 aprile 2013

Suicidi Squisiti n°11 (storia vera di una donna in frantumi.)



Si suicidò un attimo prima
di conoscere
i suoi genitori.




Il mio nome è Natasha e sono stata rapita all’età di sei anni da un uomo di nome Eckart.
Per dieci anni sono rimasta costretta in casa immaginando che quella fosse la vita vera. Non so nulla di quello che fanno gli altri ragazzi, di come sia la loro vita.
Quando sono andati nel luogo della mia prigionia hanno trovato il corpo di Eckart. Scoprendo la mia assenza si è ucciso. Era disteso tra le mie cose. Migliaia di oggetti, minuscoli a volte. Ho collezionato molto ed Eckart è sempre stato molto attento a questa mia piccola ingombrante mania. Era stato lui a portare in casa ogni singolo oggetto. E poi le foto, le molte foto. Eckart teneva maniacalmente ordinati interi album di foto solo di me, quasi una per ogni settimana passata insieme negli ultimi dieci anni. 
Non saprei dire ora perché io abbia conservato così gelosamente tutte quelle cose, ma forse una vita priva di tutto ciò che si compone esteriormente, come i sogni di una donna e le sue ambizioni, finisce con il corollarsi di cose e oggetti. Un uomo deve pur esercitare su qualcosa la sua naturale ambizione a possedere. Forse Eckart era pazzo davvero ma in qualche modo, nonostante tutto, mi ha fatto sentire tutelata. L’amore può essere una patologia come un abbraccio tanto forte da soffocare, ma quella casa mi ha permesso di restare una bambina. Ci sono stati momenti felici e altri di avvilente tristezza. Sono sicura che lui vivesse male visceralmente ogni ombra sul mio viso, era come se vacillasse in quel momento ogni sicurezza sul suo metodo, ma la sua follia lo persuadeva che qualunque sacrificio fosse giustificato dalla disperazione che avrebbe provato se anch’io, come sua madre, lo avessi abbandonato.
Qui dicono che mi chiamo Emma. Francamente trovo che sia un nome che poco mi si addice. Quando mi hanno detto della sua morte ho pianto molto. Del resto Eckart è stato tutto il mio mondo per dieci anni. Sono stata la sua bambina, poi la sua compagna. Non riuscendo a scegliersi una moglie, non riuscendo a trovarla, se ne era coltivato una. Pensava che tutti gli uomini lo avrebbero deluso e le donne abbandonato. Ricordo che nei primi anni venivo legata al frigorifero con una corda abbastanza lunga da arrivare al bagno, ma solo quando lui non c’era. Questo all’inizio, poi non ce ne fu più bisogno. Mi raccontava molte storie spaventose. Il tema comune era il mondo fuori. Prima c’erano stati i lupi, poi i morti. Infine una grande guerra fredda. Eckart diceva che non potevi sapere se l’uomo del tram, o il tuo collega d’ufficio, fossero delle spie. E poi spie di chi? Si chiedeva, russe o americane?
Motivo per cui si limitava a rispondere il meno che poteva e ad evitare le conversazioni. La maniera più crudele di combattere una guerra, diceva anche, è attraverso le minacce e le parole, perché restavano sospese nell’aria.
Suo padre gli aveva insegnato che il posto più sicuro in cui nascondersi in caso di bombardamento aereo era il buco di una bomba perché è difficile che proprio lì ne cada una seconda, ma dalle minacce, dalle spie, come avresti potuto difenderti?
Tutto quello che so l’ho appreso da Eckart così come tutto quello che sapeva lui glielo aveva insegnato suo padre.
Un’altra cosa che diceva era che nel resto d’Europa i nipoti di chi l’aveva vissuta pensavano alla guerra come a un vecchio film di cui solo confusamente ricordi la trama, ma per i berlinesi era diverso. All'orizzonte del nostro immaginario c'è sempre un muro. Per noi, diceva lui, la guerra è come i denti del giudizio: un giorno, generazioni più evolute non li avranno più, ma per noi quelle inutili zanne continuavano ad essere un dolore. Naturalmente quando diceva “noi”, per me era difficile seguirlo, specie quando il noi esondava dal noi due per estendersi a Berlino o alla Germania per intera. Io non sono europea e non sono berlinese, per chi è rimasto sempre chiuso in un posto solo, quello è la sua patria e quell’unico uomo, tutta la sua gente. Nemmeno conosco l’indirizzo di tutto il mio mondo e non ci saprei ritornare. Forse dovrei provare rancore per Eckart, per quello che mi ha tolto, ma non ci riesco, continuo a pensare alle cose belle che comunque ci sono state e che sono innamorata di lui.
Una dottoressa mi ha spiegato che domani verrà a prendermi la mia vera madre. Io non so chi sia. Sono confusa. Mi hanno mostrato delle sue foto di quando ero piccola, per cercare di riportare alla mente dei ricordi, ma non ha funzionato. Ho fatto dei sogni, ma in nessuno lei c’era.
Perché poi io sia scappata nemmeno lo so. La porta era aperta ed è stato un attimo. Ho corso, corso e basta e ho corso tanto.
Un poliziotto mi ha fermato, ha fatto delle domande e io non ho saputo rispondere. Avrà pensato che sono pazza e mi ha portato all’ospedale. Adesso Eckart è morto e io mi sento in colpa. Non volevo scappare ma solo vedere il mondo fuori. Capita persino ai cani, quando sono giovani e poco esperti della vita.
Domani una donna arriverà per portarmi via. In una casa diversa, dove non c’è Eckart e tutte le mie cose. Non voglio che accada. Non posso permetterlo.

Aldo Consoli. 

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