sabato 6 luglio 2013

La Tanda (testo della performance per ALTO FEST)




                                                        I






«Forse come scrittore sarebbe meglio che tu fossi morto, vittima di questo sistema che mangia i suoi figli come un cane malato» disse Pedro il giorno che mi salvò la vita, con un passaporto falso e un biglietto, via mare, perché mi allontanassi per sempre da Buenos Aires. Non fu facile per me ascoltare quelle parole, perché Pedrito era come un fratello e certe cose sarebbe meglio che i fratelli non se le dicessero mai.
«Vedrai che poi torno» dissi io
«non prima che sia finita Manuelito, voglio che me lo prometti.»
Non dissi altro ma lo promisi. Bastava davvero poco perché ci potessimo capire Pedrito e io, e con un uno sguardo gli dissi ciò che aveva bisogno di sentirsi dire quel giorno.
Ci sono cose negli addii, cose piccole, che finiscono con il caratterizzare i tuoi ricordi. Il vento si insinuava troppo facilmente tra le palpebre fornendo un alibi a quelle lacrime che tra due uomini adulti non è il caso che scorrano mai, nemmeno quando questi sentono di essere fratelli. Alcuni addii si finge che soltanto siano arrivederci perché si portano dentro freddi che nemmeno una giubba dell’esercito russo potrebbe contenere.
Quando la nave prese il largo sentii come se uno stato febbrile fosse sopraggiunto a sottrarmi la forza. Io mi affacciavo dalla barca sforzandomi di sorridere, sbracciandomi come un turista, mentre il mio amico solo alzava il pugno, come si usava fare nella milizia, e non correva, perché una nave non è un treno e facilmente si rischia di cadere in acqua.
Quando il bastimento fu abbastanza a largo che dell’Argentina non restarono che le luci, realizzai che stavo per perdere tutto quello che avevo creduto sempre mi sarebbe appartenuto. In quel momento mi venne come la voglia di buttarmi e riguadagnare a nuoto la riva, tornare indietro e dire a tutti che non li avrei lasciati, che se mi avessero preso tanto peggio.
Ma forse davvero sarebbe stato più facile essere ascoltato se la mia voce fosse giunta da lontano, come diceva Pedro, che guidava il movimento col motto “il 1977 non ci lascia nessuna scelta!”
Il governo di Jorge Videla aveva fatto sparire solo quell’anno più di trecento persone, e una di queste sarei stato certamente io se il mio amico non fosse stato così solerte da organizzare tutto per tempo.
C’era questa città in Italia che si diceva fosse la città più a Sud America d’Europa. Pochi anni prima vi avevano osannato il grande Jose Altafini e per me, che avevo urlato il suo nome dagli spalti del Monumental, la cosa aveva un senso. Cosa sarebbe stata Napoli per me non potevo saperlo allora, ma dal canto suo Pedro era sicuro che soltanto lì un bonarense si sarebbe potuto sentire a casa come in Calle Avellaneda o nei pressi della Bombonera.
Nello spazio breve di un pivot la mia vita si metteva in salvo sul mare, con tutto il silenzio, il vuoto e il senso di colpa di chi abbandona la battaglia, nonostante sia impari e sia impossibile uscirne vincitori. Non ero più un ragazzo e in me non albergava nessuna sete di martirio. Del resto non ero un guerrigliero, ero solo un giornalista che si era messo nei guai con la censura. Avevo scritto alcuni articoli apparsi su El Pays in cui avevo sentito l’obbligo di denunciare la scomparsa di alcune persone care di cui potevo asserire con certezza assoluta che per nessun motivo avrebbero abbandonato la moglie, i figli e l’Argentina.
Io stesso avevo a cuore la sorte dei miei cari, ma ci sono circostanze che nella loro eccezionale brutalità ti costringono con dolore a dare un dolore.
«Preferisco saperti lontano e non perduto» mi disse mia nonna, con la quale ero cresciuto dopo la prematura morte di mia madre, il giorno in cui commosso  la misi al corrente della mia imminente partenza.
Questa era quindi la mia personale condizione, quel giovedì di Marzo in cui abbandonai per sempre l’Argentina. E fu lì che la vidi, quella notte stessa, per la prima volta.



1° Tango.



  


  


                                                       II
   




Una barca è un luogo che sa essere agevolmente nessuna parte. Persino il tempo, a bordo, si dimentica di se, della sua fisicità, delle regole e di ciò che lo giustifica.
Se poi questa è una barca di emigranti allora tutto si amplifica e si propaga come un suono. Nella mancanza di un destino certo s’impara presto il ritmo del momento. Gli emigranti hanno sempre il cuore diviso: un pezzo lo si lascia dove si viene, in modo da potersi illudere che sempre sarà possibile farvi ritorno, e un pezzo lo si scaglia nel buio che si ha davanti, nella speranza che una scia luminosa sia capace d’indicare una rotta.
La prima volta che la vidi era nel bel mezzo di una tanda. Tutte le notti ci si riuniva nella stiva dove alcuni uomini che si erano portati appresso gli strumenti organizzavano delle bande occasionali. Così in quel poco che c’era da bere e nelle canzoni popolari cercavamo di dimenticare tutto il tempo che ci sarebbe voluto anche solo per immaginarsela una vita nuova, lontani da Buenos Aires.
E lei era lì, che ballava con la fermezza di un discorso di protesta. Non seppi mai la ragione che la spinse a partire, non me lo disse e io non feci domande. Forse c’entrava col fatto che il tango, e persino quello, da noi era diventato praticamente illegale, perché non c’è regime che ami le forme di aggregazione spontanea, dove le persone possono parlare e scambiarsi idee liberamente. In ogni caso, censurare il tango, volerlo controllare, era come toccare le ali di una farfalla, sporcarsi le dita con la sottile polvere che le ricopre, e pretendere che si rimetta delicatamente e armoniosamente a volare.
Una tanguera non è una ballerina che volteggia nell’aria, sfidando la gravità, la tanguera ha sempre un contatto con la terra e non l’abbandona che per brevissimi tratti; una tanguera è un pugnale che avanza con l’abbandono di chi sente di essere nel giusto e dal tanguero si lascia guidare come una sete di vendetta.
Ci sono volte in cui la bellezza è così grande da creare imbarazzo, e lei, mentre ballava, era bella così.
Il tango, da noi, è una questione di temperamento, di clima e di sangue. Qualcosa che ha a che fare con la polvere e le strade, e il farselo piacere. Il tango argentino silenziosamente urla a squarciagola.
Negarcelo sarebbe stato come mettere le mani sul calcio o il sole indio che ti fissa dal centro della nostra stessa bandiera.
Dal canto mio non è che il tango lo ballassi tanto bene e preferivo restarmene in disparte, senza invitare mai nessuna ragazza.
Ci sono barche da cui non si dovrebbe scendere mai perché toccata la banchina tutta la vita prende il sopravvento, chiedendo il prezzo in monete di prosa e rimpianto.
Molte volte, da quella prima volta, ballai con lei, ma solo nel sonno. Per giorni restai a guardarla da cauta distanza e più vicino, molto più vicino, la tenni a me quando lei non c’era. L’osservavo muoversi lì, ed ora, e poi altrove, in un posto diverso che non le sarebbe appartenuto, in cui non sarebbe stata forse capace di farsi strada. Era certamente la donna più bella che avessi mai visto e avrei voluto che il destino le avesse sorriso sempre.



2° Tango.




                                                   III





Un equilibrio di assenza
nel silenzio
aggrappati al mistero
sospesi in un attimo di perfezione
indossando le giuste scarpe
ci si spoglia di ciò che si è stati prima
si dimentica quello che si sarà ancora
nell’abbraccio della compagna
dimentichi le miserie
e per lunghissimi istanti la tanda è la vita tutta intera.
Per una Sacada e come una Sacada
io entrai nella tua vita
e mi piace tanto credere che fui la luna
per una volta nella tua notte
nell’infinito otto delle tue gambe
ci guidammo entrambi, come se fosse possibile
che in quell’unico lunghissimo tango
ci si potesse scambiare a piacimento i ruoli
e tu eri me e io ero te
sconosciuti l’uno all’altra come il domani
ma che pure ci toccavamo
come il mare e la terra
da qualche parte per poi separarci
e non riconoscersi
affezionati per quel poco che era
i tuoi occhi chiusi
i miei spalancati come finestre
per lasciar entrare molte più parti di te
nella mia memoria
i miei occhi sbarrati per sentire il tuo profumo
e far parte di quello che sei
e che eri stata prima e dopo
all’arrivo e all’addio.
Tutto il mondo fermo
trattenendo il respiro
e persino le foglie avrebbero ritardato
il volo e l’autunno per vedere
quale sarebbe stata la nostra prossima mossa
tu che scivolavi sul pavimento
e tutti i miei desideri non avevano spazio che nella tua parabola
dove tu saresti finita io ti sarei venuta a cercare
il tuo cuore tenuto al mio con una spilla
e sotto gazebi di luci ci saremmo detti ancora
e non lasciarmi passare
io che sempre torno
perché non mi sarà parsa vita
quella passata senza di te.
Questo fu quello che provai e pensai
nel breve tratto di quell’unica tanda
ballata insieme la notte prima di arrivare
prima di attraccare all’imbarcadero
raccogliere le nostre miserie
e percorrere le strade che avremmo percorso in silenzio
lei da un lato e io dall’altro
nell’immane fatica di essere uomini.



3°Tango.
                                                                  FINE.


Pier Angelo Consoli.
                                     




                                                

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