I
«Forse come scrittore sarebbe meglio che
tu fossi morto, vittima di questo sistema che mangia i suoi figli come un cane
malato» disse Pedro il giorno
che mi salvò la vita, con un passaporto falso e un biglietto, via mare, perché
mi allontanassi per sempre da Buenos Aires. Non fu facile per me ascoltare
quelle parole, perché Pedrito era come un fratello e certe cose sarebbe meglio
che i fratelli non se le dicessero mai.
«Vedrai che poi torno» dissi io
«non prima che sia finita Manuelito,
voglio che me lo prometti.»
Non dissi altro ma lo
promisi. Bastava davvero poco perché ci potessimo capire Pedrito e io, e con un
uno sguardo gli dissi ciò che aveva bisogno di sentirsi dire quel giorno.
Ci sono cose negli
addii, cose piccole, che finiscono con il caratterizzare i tuoi ricordi. Il
vento si insinuava troppo facilmente tra le palpebre fornendo un alibi a quelle
lacrime che tra due uomini adulti non è il caso che scorrano mai, nemmeno
quando questi sentono di essere fratelli. Alcuni addii si finge che soltanto
siano arrivederci perché si portano dentro freddi che nemmeno una giubba
dell’esercito russo potrebbe contenere.
Quando la nave prese il
largo sentii come se uno stato febbrile fosse sopraggiunto a sottrarmi la
forza. Io mi affacciavo dalla barca sforzandomi di sorridere, sbracciandomi
come un turista, mentre il mio amico solo alzava il pugno, come si usava fare
nella milizia, e non correva, perché una nave non è un treno e facilmente si
rischia di cadere in acqua.
Quando il bastimento fu
abbastanza a largo che dell’Argentina non restarono che le luci, realizzai che
stavo per perdere tutto quello che avevo creduto sempre mi sarebbe appartenuto.
In quel momento mi venne come la voglia di buttarmi e riguadagnare a nuoto la
riva, tornare indietro e dire a tutti che non li avrei lasciati, che se mi
avessero preso tanto peggio.
Ma forse davvero
sarebbe stato più facile essere ascoltato se la mia voce fosse giunta da lontano,
come diceva Pedro, che guidava il movimento col motto “il 1977 non ci lascia
nessuna scelta!”
Il governo di Jorge
Videla aveva fatto sparire solo quell’anno più di trecento persone, e una di
queste sarei stato certamente io se il mio amico non fosse stato così solerte
da organizzare tutto per tempo.
C’era questa città in
Italia che si diceva fosse la città più a Sud America d’Europa. Pochi anni
prima vi avevano osannato il grande Jose Altafini e per me, che avevo urlato il
suo nome dagli spalti del Monumental, la cosa aveva un senso. Cosa sarebbe
stata Napoli per me non potevo saperlo allora, ma dal canto suo Pedro era
sicuro che soltanto lì un bonarense si sarebbe potuto sentire a casa come in
Calle Avellaneda o nei pressi della Bombonera.
Nello spazio breve di
un pivot la mia vita si metteva in salvo sul mare, con tutto il silenzio, il
vuoto e il senso di colpa di chi abbandona la battaglia, nonostante sia impari
e sia impossibile uscirne vincitori. Non ero più un ragazzo e in me non albergava
nessuna sete di martirio. Del resto non ero un guerrigliero, ero solo un
giornalista che si era messo nei guai con la censura. Avevo scritto alcuni
articoli apparsi su El Pays in cui avevo sentito l’obbligo di denunciare la
scomparsa di alcune persone care di cui potevo asserire con certezza assoluta
che per nessun motivo avrebbero abbandonato la moglie, i figli e l’Argentina.
Io stesso avevo a cuore
la sorte dei miei cari, ma ci sono circostanze che nella loro eccezionale
brutalità ti costringono con dolore a dare un dolore.
«Preferisco saperti lontano e non perduto» mi disse mia nonna,
con la quale ero cresciuto dopo la prematura morte di mia madre, il giorno in
cui commosso la misi al corrente della
mia imminente partenza.
Questa era quindi la
mia personale condizione, quel giovedì di Marzo in cui abbandonai per sempre
l’Argentina. E fu lì che la vidi, quella notte stessa, per la prima volta.
1°
Tango.
II
Una
barca è un luogo che sa essere agevolmente nessuna parte. Persino il tempo, a
bordo, si dimentica di se, della sua fisicità, delle regole e di ciò che lo
giustifica.
Se
poi questa è una barca di emigranti allora tutto si amplifica e si propaga come
un suono. Nella mancanza di un destino certo s’impara presto il ritmo del
momento. Gli emigranti hanno sempre il cuore diviso: un pezzo lo si lascia dove
si viene, in modo da potersi illudere che sempre sarà possibile farvi ritorno,
e un pezzo lo si scaglia nel buio che si ha davanti, nella speranza che una
scia luminosa sia capace d’indicare una rotta.
La
prima volta che la vidi era nel bel mezzo di una tanda. Tutte le notti ci si
riuniva nella stiva dove alcuni uomini che si erano portati appresso gli
strumenti organizzavano delle bande occasionali. Così in quel poco che c’era da
bere e nelle canzoni popolari cercavamo di dimenticare tutto il tempo che ci
sarebbe voluto anche solo per immaginarsela una vita nuova, lontani da Buenos
Aires.
E
lei era lì, che ballava con la fermezza di un discorso di protesta. Non seppi
mai la ragione che la spinse a partire, non me lo disse e io non feci domande.
Forse c’entrava col fatto che il tango, e persino quello, da noi era diventato
praticamente illegale, perché non c’è regime che ami le forme di aggregazione
spontanea, dove le persone possono parlare e scambiarsi idee liberamente. In
ogni caso, censurare il tango, volerlo controllare, era come toccare le ali di
una farfalla, sporcarsi le dita con la sottile polvere che le ricopre, e
pretendere che si rimetta delicatamente e armoniosamente a volare.
Una
tanguera non è una ballerina che volteggia nell’aria, sfidando la gravità, la
tanguera ha sempre un contatto con la terra e non l’abbandona che per
brevissimi tratti; una tanguera è un pugnale che avanza con l’abbandono di chi
sente di essere nel giusto e dal tanguero si lascia guidare come una sete di
vendetta.
Ci
sono volte in cui la bellezza è così grande da creare imbarazzo, e lei, mentre
ballava, era bella così.
Il
tango, da noi, è una questione di temperamento, di clima e di sangue. Qualcosa
che ha a che fare con la polvere e le strade, e il farselo piacere. Il tango
argentino silenziosamente urla a squarciagola.
Negarcelo
sarebbe stato come mettere le mani sul calcio o il sole indio che ti fissa dal
centro della nostra stessa bandiera.
Dal
canto mio non è che il tango lo ballassi tanto bene e preferivo restarmene in
disparte, senza invitare mai nessuna ragazza.
Ci
sono barche da cui non si dovrebbe scendere mai perché toccata la banchina
tutta la vita prende il sopravvento, chiedendo il prezzo in monete di prosa e
rimpianto.
Molte
volte, da quella prima volta, ballai con lei, ma solo nel sonno. Per giorni
restai a guardarla da cauta distanza e più vicino, molto più vicino, la tenni a
me quando lei non c’era. L’osservavo muoversi lì, ed ora, e poi altrove, in un
posto diverso che non le sarebbe appartenuto, in cui non sarebbe stata forse
capace di farsi strada. Era certamente la donna più bella che avessi mai visto
e avrei voluto che il destino le avesse sorriso sempre.
2°
Tango.
III
Un equilibrio di
assenza
nel silenzio
aggrappati al mistero
sospesi in un attimo di
perfezione
indossando le giuste
scarpe
ci si spoglia di ciò
che si è stati prima
si dimentica quello che
si sarà ancora
nell’abbraccio della
compagna
dimentichi le miserie
e per lunghissimi
istanti la tanda è la vita tutta intera.
Per una Sacada e come
una Sacada
io entrai nella tua
vita
e mi piace tanto
credere che fui la luna
per una volta nella tua
notte
nell’infinito otto
delle tue gambe
ci guidammo entrambi,
come se fosse possibile
che in quell’unico
lunghissimo tango
ci si potesse scambiare
a piacimento i ruoli
e tu eri me e io ero te
sconosciuti l’uno
all’altra come il domani
ma che pure ci
toccavamo
come il mare e la terra
da qualche parte per
poi separarci
e non riconoscersi
affezionati per quel
poco che era
i tuoi occhi chiusi
i miei spalancati come
finestre
per lasciar entrare
molte più parti di te
nella mia memoria
i miei occhi sbarrati
per sentire il tuo profumo
e far parte di quello
che sei
e che eri stata prima e
dopo
all’arrivo e all’addio.
Tutto il mondo fermo
trattenendo il respiro
e persino le foglie
avrebbero ritardato
il volo e l’autunno per
vedere
quale sarebbe stata la
nostra prossima mossa
tu che scivolavi sul
pavimento
e tutti i miei desideri
non avevano spazio che nella tua parabola
dove tu saresti finita
io ti sarei venuta a cercare
il tuo cuore tenuto al
mio con una spilla
e sotto gazebi di luci
ci saremmo detti ancora
e non lasciarmi passare
io che sempre torno
perché non mi sarà
parsa vita
quella passata senza di
te.
Questo fu quello che
provai e pensai
nel breve tratto di
quell’unica tanda
ballata insieme la
notte prima di arrivare
prima di attraccare
all’imbarcadero
raccogliere le nostre
miserie
e percorrere le strade
che avremmo percorso in silenzio
lei da un lato e io
dall’altro
nell’immane fatica di
essere uomini.
3°Tango.
FINE.
Pier Angelo Consoli.
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