domenica 3 marzo 2013

Suicidi Squisiti N°1






Faceva il sarto, 
non sopportava il giallo accoppiato con il viola, 
si avvolse quella sciarpa al
collo e strinse forte: fino a strozzarsi.


 Ci sono volte in cui ti accorgi di alcuni piccoli particolari. Cose che hai sempre avuto davanti agli occhi ma non si sa come, improvvisamente, finisce che le cogli e non riesci a pensare ad altro. Sono cose piccolissime, dei dettagli, ma è come se il tuo sguardo fissandole le ingigantisse fino a saturare tutto il paesaggio circostante, impadronendosi del panorama.
Forse perché non nei macroeventi, nelle grandi linee, ma nei più piccoli dettagli, io ho sempre immaginato, che si definissero le storie, e persino la tua vita stessa.
Un giorno ero nella mia bottega di sarto, di domenica pomeriggio. Ci venivo spesso nei giorni festivi, verso le sei, per finire dei lavori o molto più semplicemente perché qui io mi potevo rifugiare. Quando si è giovani ci si compiace della compagnia e si soffre l’assenza delle altre persone, ma avanti con gli anni ci si sente saturi delle chiacchiere e del rumore, come se il contenitore che noi stessi siamo si sia colmato delle vite degli altri e senti di averne abbastanza. Il lavoro era un alibi per non dover giustificare alla mia famiglia questa mia insofferenza.  Ai loro occhi non ero che un sarto molto zelante, esageratamente scrupoloso ed era questa la parte che mi toccava tenere quando mia moglie ancora si lamentava.
Così anche quella domenica pomeriggio me ne stavo seduto davanti al banco delle stoffe a osservare i bozzetti, i particolari di una giacca che dovevo finire, le pieghe di un pantalone e tutte quelle cose che ancora mi piaceva fare, tutto sommato, dopo tutti quegli anni.
Le stoffe poi erano sempre state la mia passione. Da ragazzo per questo mio amore  per la sartoria ero stato spesso preso di mira dai compagni, che la ritenevano un’occupazione più adatta alle ragazze, ma io volevo imparare un mestiere e non mi vergognavo. A casa veniva sempre questa donna che cuciva gli abiti di mio padre, così quando fui abbastanza grande le chiesi se poteva prendermi a bottega e insegnarmi i rudimenti. Lei fu molto felice di avere un aiutante. Fin d’allora amavo andare al mercato e scegliere da me le stoffe, contrattarle direttamente al banco. Qualche rappresentante di grandi ditte ancora veniva in negozio, ma io li allontanavo in maniera garbata, scusandomi quasi, ognuno ha il suo lavoro e lo deve fare, lo capisco, ma io preferivo così, ho sempre preferito così.
D’un tratto osservando le stoffe mi soffermai su un particolare che fino ad allora mi era sfuggito: una grossa balla di raso viola e un’altra gialla erano state messe vicino. Di mettere a posto la merce si occupava occasionalmente mia moglie, quando veniva a darmi una mano in negozio e mi convinsi che senza ombra di dubbio doveva essere stata lei ad accostare in maniera tanto sconsiderata quei due colori la cui vicinanza mi faceva improvvisamente sentire lo stomaco.
So che avrei potuto semplicemente spostarli,  prendere un rotolo rosso e metterlo tra i due, che non era così importante, ma per una curiosa ragione io non riuscivo nemmeno ad avvicinarmi allo scaffale.
La sola vista di quei tessuti vicini mi dava le vertigini. Così andai al bagno e mi sciacquai ripetutamente la faccia. Non era normale quel tipo di reazione, lo capivo benissimo, così mi guardai allo specchio e feci un respiro profondo, poi un secondo e dissi a me stesso poco più che sussurrando «smettila.»
Quando mi sentii pronto tornai al banco e presi entrambi i rotoli di raso. Adesso erano ancora vicine, davanti a me, sotto i palmi delle mie mani, ma nonostante questo cambio di prospettiva io non riuscivo a non provare disgusto per quei due colori così vicini.
Viola e giallo, andiamo, mi ripetevo, smettila, sono solo colori, ma niente, restavo confuso.
A quel punto immaginai che l’unico modo per uscirne fosse di cucirle insieme, per farne una specie di sciarpa. Forse sottoponendomi ad una sorta di terapia d’urto sarei stato capace di esorcizzare quel misterioso nodo che si era formato nella mia testa.
Ne tagliai due pezzi lunghi quasi un metro per ciascuno e li portai alla macchina per cucire. Una volta uniti in una sola lingua la osservai, ma nemmeno così io riuscivo a sopportarne la vista. Così deciso a non arrendermi pensai di legarla al lampadario perché era al centro della stanza ed era anche il punto più alto.
Forse contemplando quella sciarpa con una visuale diversa sarei riuscito a vederla per quello che effettivamente era, e cioè solo una bruttissima unione di due stoffe di raso dall’improponibile accostamento cromatico.
Presi una sedia e la legai alla catena, poi scesi e mi allontanai di qualche passo, e la osservai, come se fosse un serpente che scendendo dal soffitto anelava di raggiungere il pavimento come una via di fuga.
Eppure anche così quella mostruosità mi si rivelava insopportabile. Restai qualche minuto fermo sulla mia posizione a qualche metro da essa e mi accorsi poi che per tutto il tempo la mia testa era stata svuotata da qualsiasi pensiero, come ipnotizzato da quel feticcio.
A questo punto ero quasi spaventato, non certo da quell’oggetto che pendeva dal soffitto, ma dalla mia reazione di fronte a esso, così quasi nervosamente mi venne da ridere, e mi dissi lasciamo perdere, ma siamo impazziti, adesso basta, la butto e basta. Anche per convincermi me la legai al collo, feci diversi giri, e cominciai a canticchiare un motivetto che qualche giorno prima avevo ascoltato alla radio, ballando nel breve cono di spazio che mi era concesso. Mi guardavo allo specchio con quella brutta sciarpa al collo come se l’avessi scelta per me, come se fosse una frivolezza che mi caratterizzava e osassi indossarla tra la gente.
Per qualche secondo mi sentii quasi meglio, poi fui pervaso dall’imbarazzo, come se qualcuno potesse entrare da un momento all’altro e cogliermi in quel momento di leggerezza, come nudo. In casi come questo anche se sai con precisione che non c’è nessuno, finisce ugualmente che ti senti sciocco e ti ricomponi immediatamente.  
Era ora di farla finita, oltretutto si era fatto tardi e salii sulla sedia ancora una volta per slegarla. Arrampicandomi avevo ancora il lungo drappo allacciato al collo perché l’imbarazzo precedente mi aveva impedito di fare le cose con ordine, così mentre mi sforzavo di sciogliere il nodo, la sedia mi sfuggì da sotto i piedi e rimasi, appeso, come mia moglie mi trovò, la mattina seguente.
 
Aldo Consoli.

 Glen Gould 1932-1982 Bach BWN 1027-1029

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