Faceva
il sarto,
non sopportava il giallo accoppiato con il viola,
si avvolse quella sciarpa al
non sopportava il giallo accoppiato con il viola,
si avvolse quella sciarpa al
collo e strinse forte: fino a strozzarsi.
Ci sono volte in cui ti
accorgi di alcuni piccoli particolari. Cose che hai sempre avuto davanti agli
occhi ma non si sa come, improvvisamente, finisce che le cogli e non riesci a
pensare ad altro. Sono cose piccolissime,
dei dettagli, ma è come se il tuo sguardo fissandole le ingigantisse fino a
saturare tutto il paesaggio circostante, impadronendosi del panorama.
Forse perché non nei
macroeventi, nelle grandi linee, ma nei più piccoli dettagli, io ho sempre
immaginato, che si definissero le storie, e persino la tua vita stessa.
Un giorno ero nella mia
bottega di sarto, di domenica pomeriggio. Ci venivo spesso nei giorni festivi,
verso le sei, per finire dei lavori o molto più semplicemente perché qui io mi
potevo rifugiare. Quando si è giovani ci
si compiace della compagnia e si soffre l’assenza delle altre persone, ma avanti
con gli anni ci si sente saturi delle chiacchiere e del rumore, come se il
contenitore che noi stessi siamo si sia colmato delle vite degli altri e senti
di averne abbastanza. Il lavoro era un alibi
per non dover giustificare alla mia famiglia questa mia insofferenza. Ai loro occhi non ero che un sarto molto
zelante, esageratamente scrupoloso ed era questa la parte che mi toccava tenere
quando mia moglie ancora si lamentava.
Così anche quella
domenica pomeriggio me ne stavo seduto davanti al banco delle stoffe a
osservare i bozzetti, i particolari di una giacca che dovevo finire, le pieghe
di un pantalone e tutte quelle cose che ancora mi piaceva fare, tutto sommato,
dopo tutti quegli anni.
Le stoffe poi erano
sempre state la mia passione. Da ragazzo per questo mio amore per la sartoria ero stato spesso preso di mira
dai compagni, che la ritenevano un’occupazione più adatta alle ragazze, ma io
volevo imparare un mestiere e non mi vergognavo. A casa veniva sempre questa
donna che cuciva gli abiti di mio padre, così quando fui abbastanza grande le
chiesi se poteva prendermi a bottega e insegnarmi i rudimenti. Lei fu molto felice
di avere un aiutante. Fin d’allora amavo
andare al mercato e scegliere da me le stoffe, contrattarle direttamente al
banco. Qualche rappresentante di grandi ditte ancora veniva in negozio, ma io
li allontanavo in maniera garbata, scusandomi quasi, ognuno ha il suo lavoro e
lo deve fare, lo capisco, ma io preferivo così, ho sempre preferito così.
D’un tratto osservando
le stoffe mi soffermai su un particolare che fino ad allora mi era sfuggito:
una grossa balla di raso viola e un’altra gialla erano state messe vicino. Di
mettere a posto la merce si occupava occasionalmente mia moglie, quando veniva
a darmi una mano in negozio e mi convinsi che senza ombra di dubbio doveva
essere stata lei ad accostare in maniera tanto sconsiderata quei due colori la
cui vicinanza mi faceva improvvisamente sentire lo stomaco.
So che avrei potuto
semplicemente spostarli, prendere un
rotolo rosso e metterlo tra i due, che non era così importante, ma per una
curiosa ragione io non riuscivo nemmeno ad avvicinarmi allo scaffale.
La sola vista di quei
tessuti vicini mi dava le vertigini. Così andai al bagno e mi sciacquai
ripetutamente la faccia. Non era normale quel tipo di reazione, lo capivo
benissimo, così mi guardai allo specchio e feci un respiro profondo, poi un
secondo e dissi a me stesso poco più che sussurrando «smettila.»
Quando mi sentii pronto
tornai al banco e presi entrambi i rotoli di raso. Adesso erano ancora vicine,
davanti a me, sotto i palmi delle mie mani, ma nonostante questo cambio di
prospettiva io non riuscivo a non provare disgusto per quei due colori così
vicini.
Viola e giallo,
andiamo, mi ripetevo, smettila, sono solo colori, ma niente, restavo confuso.
A quel punto immaginai
che l’unico modo per uscirne fosse di cucirle insieme, per farne una specie di
sciarpa. Forse sottoponendomi ad una sorta di terapia d’urto sarei stato capace
di esorcizzare quel misterioso nodo che si era formato nella mia testa.
Ne tagliai due pezzi
lunghi quasi un metro per ciascuno e li portai alla macchina per cucire. Una
volta uniti in una sola lingua la osservai, ma nemmeno così io riuscivo a
sopportarne la vista. Così deciso a non arrendermi pensai di legarla al
lampadario perché era al centro della stanza ed era anche il punto più alto.
Forse contemplando
quella sciarpa con una visuale diversa sarei riuscito a vederla per quello che
effettivamente era, e cioè solo una bruttissima unione di due stoffe di raso
dall’improponibile accostamento cromatico.
Presi una sedia e la
legai alla catena, poi scesi e mi allontanai di qualche passo, e la osservai,
come se fosse un serpente che scendendo dal soffitto anelava di raggiungere il
pavimento come una via di fuga.
Eppure anche così
quella mostruosità mi si rivelava insopportabile. Restai qualche minuto fermo
sulla mia posizione a qualche metro da essa e mi accorsi poi che per tutto il
tempo la mia testa era stata svuotata da qualsiasi pensiero, come ipnotizzato
da quel feticcio.
A questo punto ero
quasi spaventato, non certo da quell’oggetto che pendeva dal soffitto, ma dalla
mia reazione di fronte a esso, così quasi nervosamente mi venne da ridere, e mi
dissi lasciamo perdere, ma siamo impazziti, adesso basta, la butto e basta.
Anche per convincermi me la legai al collo, feci diversi giri, e cominciai a
canticchiare un motivetto che qualche giorno prima avevo ascoltato alla radio,
ballando nel breve cono di spazio che mi era concesso. Mi guardavo allo
specchio con quella brutta sciarpa al collo come se l’avessi scelta per me,
come se fosse una frivolezza che mi caratterizzava e osassi indossarla tra la
gente.
Per qualche secondo mi
sentii quasi meglio, poi fui pervaso dall’imbarazzo, come se qualcuno potesse
entrare da un momento all’altro e cogliermi in quel momento di leggerezza, come
nudo. In casi come questo anche se sai con precisione che non c’è nessuno,
finisce ugualmente che ti senti sciocco e ti ricomponi immediatamente.
Era ora di farla
finita, oltretutto si era fatto tardi e salii sulla sedia ancora una volta per
slegarla. Arrampicandomi avevo ancora il lungo drappo allacciato al collo
perché l’imbarazzo precedente mi aveva impedito di fare le cose con ordine,
così mentre mi sforzavo di sciogliere il nodo, la sedia mi sfuggì da sotto i
piedi e rimasi, appeso, come mia moglie mi trovò, la mattina seguente.
Aldo Consoli.
Glen Gould 1932-1982
Bach BWN 1027-1029
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