Era
in crisi, faceva pochi live,
non riusciva a dare pace a quel suo bisogno di
esibirsi.
Si tagliò la gola durante un concerto... l’ultimo.
Sul ciglio della strada
un bambino fuma distrattamente una sigaretta, avrà forse dieci anni, e poco
distante i suoi amici tirano sassi a un semaforo. Il cielo è anoressico, i
palazzi si deformano di disgusto e le pozzanghere addobbano l’asfalto, anche
d’estate.
Scendo dalla macchina e
mi avvolgo nel cardigan anche se non fa freddo, quasi per vezzo. Allo stesso
modo mi accendo una sigaretta che so non riuscirò a finire: troppo corta la
strada dall’auto al portone, verso la navata.
Sergio è seduto su una
panchina nel vialetto antistante. È vestito in modo elegante, come se fosse in
anticipo per il matrimonio successivo e non in ritardo per il funerale in
corso.
«Gli altri devono essere dentro» dice «non me la sono sentita,
mi manca l’aria a entrare.»
Io e Sergio eravamo
stati i suoi migliori amici prima che fondasse la band scomparendo in quel suono ripetitivo che sembrava averlo ingoiato. Era diventato quasi famoso, scordandosi
di noi per quasi tutto il tempo, cancellando gli anni in cui avevamo diviso
tutto il nulla che avevamo: le sigarette, le stanze troppo fredde e le cene in
cui si apparecchiava con bicchieri molto grandi e piatti troppo piccoli.
Ironico che di noi si
sia fatto fuori proprio quello che quasi ce l’aveva fatta e forse proprio per
questo noi si restava in vita, attaccati alla speranza come l’ultima promessa
prima di andare.
Negli ultimi anni
capitava che di notte ci telefonasse, urlando e piangendo come un vitello per
poi chiedere scusa. Era così fatto che a volte pensava di aver sbagliato
numero, e attaccava anche quando tu lo chiamavi per nome e gli dicevi andrà
tutto bene.
La sua carriera era
oscillata e più volte era sembrato che stesse per decollare sul serio. Per
qualche oscura ragione era mancato sempre qualcosa e piano piano i concerti erano stati sempre di
meno tramutandolo in una vecchia gloria. C’era chi se ne ricordava, ma era
sempre più spesso, per ognuno di noi, tanto tempo fa.
Naturalmente non
riusciva a rassegnarsi, immaginando di dover escogitare qualcosa che gli
permettesse di restare.
Non credo che lo abbia
detto a qualcuno. Semplicemente lo fece, una sera, davanti a poche decine di
persone, mentre suonava tirò fuori un coltello dalla tasca e si tagliò la gola,
davanti a tutti.
Quando le persone
cominciano a uscire dalla chiesa ci avviciniamo per dare le condoglianze e ci
rendiamo conto che non conosciamo nessuno dei presenti. Ci saremmo aspettati un
corteo di rockettari, ma c’era poca gente ed erano tutte persone distinte.
Poi succede una di
quelle cose che forse hai visto al cinema ma non credi che possa davvero
accadere. Il tipo davanti fa cadere la bara sul pavimento, semplicemente gli
scappa. Così aprendosi a serramanico ne viene fuori un mezzo busto sugli
ottanta, pelato e coi baffi. Io e Sergio ci guardiamo interdetti e beffardi, si
sente un urlo d’angoscia: «No!
Gelsomino!»
Abbiamo sbagliato
chiesa e sbagliato funerale. Mi piacerebbe solo credere che lui non sia
veramente morto, come nel teorema dello scacchista invincibile che scappa
quando se le cose si mettono male: se la partita non si chiude, non si può
perdere.
Aldo Consoli.
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