giovedì 14 marzo 2013

Suicidi Squisiti n°6 (di Rock n'roll. Di funerali sbagliati. Di partite a scacchi.)





Era in crisi, faceva pochi live, 
non riusciva a dare  pace a quel suo bisogno di esibirsi. 
Si tagliò la gola durante un concerto... l’ultimo.


Sul ciglio della strada un bambino fuma distrattamente una sigaretta, avrà forse dieci anni, e poco distante i suoi amici tirano sassi a un semaforo. Il cielo è anoressico, i palazzi si deformano di disgusto e le pozzanghere addobbano l’asfalto, anche d’estate.
Scendo dalla macchina e mi avvolgo nel cardigan anche se non fa freddo, quasi per vezzo. Allo stesso modo mi accendo una sigaretta che so non riuscirò a finire: troppo corta la strada dall’auto al portone, verso la navata.
Sergio è seduto su una panchina nel vialetto antistante. È vestito in modo elegante, come se fosse in anticipo per il matrimonio successivo e non in ritardo per il funerale in corso.
«Gli altri devono essere dentro» dice «non me la sono sentita, mi manca l’aria a entrare.»
Io e Sergio eravamo stati i suoi migliori amici prima che fondasse la band scomparendo in quel suono ripetitivo che sembrava averlo ingoiato. Era diventato quasi famoso, scordandosi di noi per quasi tutto il tempo, cancellando gli anni in cui avevamo diviso tutto il nulla che avevamo: le sigarette, le stanze troppo fredde e le cene in cui si apparecchiava con bicchieri molto grandi e piatti troppo piccoli.
Ironico che di noi si sia fatto fuori proprio quello che quasi ce l’aveva fatta e forse proprio per questo noi si restava in vita, attaccati alla speranza come l’ultima promessa prima di andare.
Negli ultimi anni capitava che di notte ci telefonasse, urlando e piangendo come un vitello per poi chiedere scusa. Era così fatto che a volte pensava di aver sbagliato numero, e attaccava anche quando tu lo chiamavi per nome e gli dicevi andrà tutto bene.
La sua carriera era oscillata e più volte era sembrato che stesse per decollare sul serio. Per qualche oscura ragione era mancato sempre qualcosa e  piano piano i concerti erano stati sempre di meno tramutandolo in una vecchia gloria. C’era chi se ne ricordava, ma era sempre più spesso, per ognuno di noi, tanto tempo fa.
Naturalmente non riusciva a rassegnarsi, immaginando di dover escogitare qualcosa che gli permettesse di restare.
Non credo che lo abbia detto a qualcuno. Semplicemente lo fece, una sera, davanti a poche decine di persone, mentre suonava tirò fuori un coltello dalla tasca e si tagliò la gola, davanti a tutti. 
Quando le persone cominciano a uscire dalla chiesa ci avviciniamo per dare le condoglianze e ci rendiamo conto che non conosciamo nessuno dei presenti. Ci saremmo aspettati un corteo di rockettari, ma c’era poca gente ed erano tutte persone distinte.
Poi succede una di quelle cose che forse hai visto al cinema ma non credi che possa davvero accadere. Il tipo davanti fa cadere la bara sul pavimento, semplicemente gli scappa. Così aprendosi a serramanico ne viene fuori un mezzo busto sugli ottanta, pelato e coi baffi. Io e Sergio ci guardiamo interdetti e beffardi, si sente un urlo d’angoscia: «No! Gelsomino!»
Abbiamo sbagliato chiesa e sbagliato funerale. Mi piacerebbe solo credere che lui non sia veramente morto, come nel teorema dello scacchista invincibile che scappa quando se le cose si mettono male: se la partita non si chiude, non si può perdere.

Aldo Consoli.

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