Si
uccise il giorno di San Valentino:
la sua fidanzata non rispose
“anch’io”
al suo ti amo.
la sua fidanzata non rispose
“anch’io”
al suo ti amo.
Il signor Cultrou lavorava alla
società dei telefoni.
Ci lavorava da quanto? Due anni
a dicembre. Prima di quello aveva venduto macchine. Poi lo avevano licenziato.
Non era riuscito a spiegare quel grosso buco sulla tappezzeria della Sauber rossa
che nessuno voleva comprare. Il signor Morelli non lo aveva in gran simpatia,
questa era la verità. E l’antipatia era reciproca. Al signor Morelli era
necessario sapere che lui fosse un fumatore e che fumasse nelle macchine coi
clienti, gli bastava sapere che quel mese non era riuscito a piazzare nemmeno
una cazzo di crocetta nella bacheca delle vendite e poco importava quanto ci
fosse andato vicino e quante volte il capo famiglia di turno si fosse fatto
dissuadere dalla moglie rompicoglioni. Il suo capo voleva toglierselo dalle
palle e il buco sulla tappezzeria della Sauber fece il resto. Per quanto ne
sapeva Cultrou, quel grosso buco sul sedile posteriore poteva averlo fatto lo
stesso Morelli per sbaglio, o il suo protetto, quell’odiosissimo Tonetto che a
quanto diceva Morelli, avrebbe venduto ghiaccio ai pinguini.
Claudio Cultrou aveva sessantatre
anni, sessantaquattro a marzo. Questo ai telefoni era il terzo lavoro della sua
vita. Certamente il peggiore. Quando pensava a se stesso, pensava ad un uomo
che non si era saputo gestire. Che si era bruciato presto, senza nemmeno
gustarsi il momento in cui stava in cima, in cui stava bene. Per un dato
periodo Claudio aveva venduto assicurazioni e ci aveva ricavato bene. Sulle
assicurazioni puoi stare certo, ci puoi credere. Lui stesso ne aveva avute
diverse. Macchina, casa e persino su se stesso. Anche adesso che aveva venduto
casa e macchina, non gli restava che la sua vita e il suo corpo, ma se lo
teneva assicurato. Le assicurazioni puntano tutto sulla fine, una fine più o
meno improvvisa, e la fine è una cosa su cui puoi star certo, su cui ti puoi tenere
forte.
Non vedeva sua figlia da anni,
ma un giorno sarebbe stata contenta di sapere che nonostante tutto suo padre
aveva pensato a lei. Al suo futuro. Il lavoro alle assicurazioni lo aveva
mollato dopo aver perso la testa per Luisa: La ragazza del bar sotto casa.
Claudio Cultrou si era diplomato a stento e si era messo a lavorare
giovanissimo. Appena maturato il primo pensionamento aveva pensato di dedicare
la sua vita al nuovo amore e magari aprire un’attività sua, un bar o qualcosa
del genere. Non gli erano mai piaciuti troppo i capi e all’altezza dei
cinquanta pensò di essere pronto per il grande passo. Bionda e con gli occhiali,
bramata dai clienti: Luisa. Fortuna che non si erano sposati. Dio solo sa se anche
stavolta non lo avrebbe voluto, ma lei si era sempre divincolata all’ultimo,
forse sapeva fin dall’inizio che non sarebbe durata e che un giorno avrebbe
deciso di sistemarsi da sua sorella a Catania. L’ex moglie di Cultrou se n’era
scappata in Svizzera con la loro figlia Dora e lui non le aveva più riviste.
Mai più. Non ci soffriva. Delle sue storie d’amore non restava traccia, di
nessun tipo. Il bar non lo aveva più aperto e Mary era scappata da un giorno
all’altro senza nemmeno scrivergli perché. Della sua ex moglie aveva dei
ricordi e se Dora era ovviamente una traccia di ciò che c’era stato tra loro,
erano passati così tanti anni che nemmeno sapeva più che faccia avessero,
tutt’e due.
Così, senza tracce, certe volte
lui stesso dubitava della sua storia, di quello che aveva fatto. Da dove veniva
Claudio Cultrou?
Ritorno e buio, caduta lenta e
stanca, piombo, cielo, autobus, ora sto camminando, pensò.
Sui sessanta non aveva più
grosse aspettative. Lavorava come venditore di vino in un call center, come i
ragazzini. I suo colleghi avevano venti, venticinque anni. Era il più vecchio
della squadra, più vecchio di tutti i suoi capi. Troppo vecchio per sentirsi rimproverare
per una crocetta messa qui piuttosto che là, troppo vecchio per qualsiasi
rimprovero che non venisse da dentro al suo stesso cuore.
Niente di particolare, a casa
non lo aspettava nessuno e si lasciava i piatti da lavare la sera per sentirsi
utile. Si dice, non rimandare a domani quello che puoi fare oggi. Non rimandare
a domani. Se lo facessi, pensava Cultrou, cosa avrei da fare domani?
Cosa avrei da vivere domani?
E poi fare i piatti gli era
sempre piaciuto, lo rilassava. Il suo lavoro lo faceva sentire un ladro. Chi lo
aveva assunto era a sua volta un ladro e un bugiardo. Gente cresciuta nel
telemarketing. Una lingua affinata per beffare. Era sempre come se ogni singola
frase nascondesse una postilla che ti mostravano facendo in modo che tu non ci
facessi caso. Tutta la loro vita era vendere. Vendevano illusioni quando ti
dicevano che quel lavoro offriva buone prospettive di guadagno, vendevano aria
quando ti dicevano che quello era il miglior call center del pianeta. Era
sempre vendere, anche a se stessi, allo specchio, prendere il pullman e andare
a spiegare, ogni giorno sempre uguale, a un nuovo arrivato che vendere vino si riduce solo a una questione di numeri. Claudio Cultrou non era un umanista,
ma pensava spesso che se vuoi vedere gli esseri umani, se vuoi vedere di cosa
sono capaci, li devi vedere mentre vendono e comprano. Certi venditori
userebbero qualsiasi argomento, dal sesso al sangue. Vendere è riuscire, è come
se tutti fossero dei cavalli scalpitanti nella gabbie alla partenza. Cavalli
alti, cavalli bassi, cavalli vecchi, cavalli esperti, giovani. Tutti in gara,
vincere, vendere, è come se nella testa si sprigionasse una qualche chimica
piacevole. Una chimica di cui ti convinci, che ti serve, tanto quanto l’assegno che ricevi alla fine
delle quattro settimane, ti serve per alzare quella cornetta che dopo tre ore
di non fatturato pesa come una clava.
Era due anni che faceva questa
cosa che lo ripugnava. Dopo aver venduto assicurazioni per una vita. Dopo aver
avuto clienti affezionati, che si fidavano di lui, che lo rispettavano, che a
natale lo ringraziavano con una buona bottiglia di grappa, o con un cesto di
dolciumi. Gente per cui era il signor Cultrou.
Claudio era un sentimentale, un
fatalista. Accettava le cose della vita, anche le brutte. Sapeva arrendersi,
aveva il senso della sconfitta e la capacità di imparare ogni volta che
succedeva. Volgendo lo sguardo si vedeva
come un pugile. Uno di media gloria che ha anche avuto la sua occasione. Aveva
fatto il suo tempo e nessuno se ne ricordava. Sapeva consolarsi delle sciagure
altrui, pochi, del resto, si ricordavano di La Motta, o di Oskar De La Hoya.
Non era mai stato un Cassius
Clay, e non serbava rancore. Quando era stato lui a colpire, la vita aveva
saputo incassare; ora toccava a lui. Era inutile ascoltare i consigli e
detergere le ferite, aprirgli l’occhio, il combattimento era destinato a finir
male. A poco a poco annegava, boccata a boccata, annegava. Si accendeva le
futura al lavoro, anche se non si poteva. E che gli venisse pure il cancro, e
che venisse ai suoi colleghi. Lì non licenziavano mai nessuno. Erano scaltri,
era un viavai di giovanotti senza volto, troppi mollavano prima della fine del
mese, colavano a picco appesi lungo il filo del telefono. Per tutti era solo un
lavoretto di passaggio. Ti lavoravano piano coi loro non ti preoccupare e ma
certamente, i può succedere, i può succedere ma che non riaccada, non riaccada
mai più.
Claudio Cultrou non poteva
sapere che nel millenovecentonovantaquattro lavare i piatti gli avrebbe quasi salvato
la vita. Era così depresso per la storia di Luisa che aveva proprio deciso di
farla finita. Gli venne un’ansia brutta, di sabato pomeriggio. D’un tratto si sentì così ossessionato dai rumori di
partita e macchine che provenivano dalla strada che aveva deciso di buttarcisi
dentro, di tuffarsi sporcando l’asfalto. Tutto perché lei si sentisse in colpa.
Così andò in camera sua e si vestì. Tutto sommato era comunque uscire. Siccome
nella sua vita aveva sempre odiato che qualcuno potesse dargli del vecchio
rimbambito, si era sempre curato molto. Non si era mai permesso il lusso di
trascurarsi, di uscire in disordine, nemmeno sul pianerottolo. Così persino per
suicidarsi decise di darsi una ripulita. Vestito, mentre si dirigeva verso il
balcone, vide i piatti sporchi nel lavandino. L’unica spiegazione che Claudio
Cultrou riesce a dare per quanto successe è che forse non voleva farlo, non con
tutto se stesso, almeno. E così si fermò, aprì il rubinetto dell’acqua calda e
non si uccise più, non in quel momento almeno. Fu come un ripensamento, come
uno scordarsi di tutte le cose per cui prima sembrava valerne la pena. Si stava
rilassando. Non gli era mai dispiaciuto farlo, e questo era sempre sembrato
strano a Luisa. Era un uomo strano, mai veramente burbero, mai veramente capace
di mostrare cattiveria. A Luisa non era mai capitato un uomo come Cultrou.
Aveva occhi celesti, alto e
magro, con un certo fascino da uomo distinto. Lo aveva amato, sicuramente,
nonostante tutto. Il problema era stato che lei non aveva mai veramente capito
quanto facesse parte della sua vita. Un uomo cresciuto senza padre, a casa di
certi zii, che di tanto in tanto sembrava nascondersi in spazi di siderale
freddura. Una padre scomparso nella notte, quando lui era molto piccolo, ucciso
dai partigiani per motivi non legati in nessun modo alla politica. Una
deportazione a cui non aveva assistito, ma che attraverso i continui racconti
aveva influito sul suo carattere. Claudio Cultrou era mezzo francese. Non aveva
studiato molto. Si era messo subito a vendere. Vendere è una cosa che ti
svuota, forse perché si ha a che fare con le cose. Quando pensava a se stesso,
quando rimuginava sulle sue competenze, Cultrou si ritrovava un pugno di
mosche. Quello che davvero aveva imparato è che gli uomini non cercano fama e
fortuna, cercano invece quell’aria d’importanza dovuta ad una particolare
competenza che viene loro universalmente riconosciuta e per la quale ricevono
la giusta fama e la giusta fortuna. Questa è la realizzazione. Cultrou sarebbe
pure potuto essere ricco, ma cosa sapeva fare lui? Cosa aveva imparato a fare
in tutti quegli anni? Niente di niente. Non aveva fatto niente che fosse destinato
a restare. Vendere non porta al restare, anche se diventi particolarmente
ricco, perché vendere è disfarsi delle cose. È essere un tramite per attivare
un trasporto di oggetti. Tramutarli in soldi. Anche quando vendeva assicurazioni
era la stessa identica cosa. Vendere vino, oro o sicurezza e speranza, è la
stessa cosa. E’ niente. Per se non gli restava che il suo corpo, che a dirla
tutta certe volte nemmeno sentiva davvero suo. I lunghi piedi, le mani nodose e
quegli occhi da Cultrou che non aveva mai saputo usare con le donne. Ricordava
la casa dello zio come una specie di comune, oltre a lui e sua madre c’erano
altre sei persone. Lì si sentì sempre un rifugiato. Non per colpa loro, ma per
colpa sua. Aveva inghiottito rabbia perché pensava che la pacatezza fosse
sintomo di maturità. Alla fine aveva perso il senso genuino per la rabbia.
Capiva che era strano e certe volte fingeva di arrabbiarsi, ma lo faceva per le
cose sbagliate e poi si vedeva che non c’era da prenderlo troppo sul serio. La
rabbia non era un sentimento che gli si addiceva. Per Cultrou c’era sempre
pronta la malinconia, l’amarezza e il rimpianto. Questi erano sentimenti che
davvero erano capaci di rapirlo, che lui conosceva bene, che sapeva assaporare.
Sapeva come sentirli fino in fondo. Ormai si era rassegnato a finire i suoi
giorni nella società dei telefoni, anche se non sopportava la sua vicina di
scrivania. Questa prediligeva l’approccio sessuale. A pensarci, utilizzava la
stessa tattica di tutte le pubblicità del mondo. Il sesso fa vendere, questa
non è una novità. E lei vendeva più di Cultrou. Non riusciva a sopportarla. Non
era quello che faceva, era il modo. Quel suo accento romagnolo, quel suo modo
di fare la porca ad alta voce. Come
faceva a non imbarazzarsi. Non gli riusciva di non trovarla ridicola.
Contattava solo clienti maschi e molti ci cascavano. Quel giorno Cultrou era stato ripreso alquanto duramente
dal suo direttore di reparto per una questione di crocette. Bisognava compilare
un foglio giallo alla fine di ogni telefonata, separando i contatti utili da
quelli inutili. Cultrou aveva cercato di spiegare le sue ragioni, ma quel pezzo
di merda lo guardava come se fosse un vecchio rincoglionito. Non era facile
alla rabbia, ma non sopportava che gli si desse del rimbambito. Aveva
trattenuto la rabbia come sempre mentre lo sgridavano e non era riuscito a dare
la sua versione. Non aveva più l’età per certe cose, non era più un bamboccio e
non poteva sopportare i rimproveri, da nessuno. Così quando dopo qualche minuto
che aveva passato a rimuginare, sorprese la sua odiata collega ad imbrogliare
nella selezione delle schede, non gli riuscì di calibrare le sue emozioni ed
esplose. Le scaraventò addosso tutta la frustrazione che aveva accumulato prima.
Sapeva che dopo se ne sarebbe pentito, ma infierì. Dopo tutto i suoi metodi di
approccio non erano meno imbarazzanti di quell’altro che ricattava
psicologicamente i clienti dicendo che se non compravano da lui sarebbe finito
in mezzo a una strada, che se loro non bevevano lui non mangiava. Eppure era
lei che aveva a tiro e su di lei colpì. Ripensandoci a casa, Cultrou si
sorprese della scarsa reazione della ragazza, quasi sibilò un come si permette,
ma senza aggiungere altro. Fu una frase che le sfuggì, quasi per scusarsi, lui
le aveva dato della puttana e lei era rimasta immobile, freddata, lo disse con
una remissività che non si addiceva alle circostanze. Era come se avesse
recitato una battuta in cui non credeva. Di cui non era convinta. Se lei avesse
reagito con la giusta veemenza, Cultrou si sarebbe ritirato nel suo guscio e
forse si sarebbe dato per vinto. Tanto si sentiva più forte e nel giusto,
quanto lei si mostrava debole. Alla fine si stancò e non essendo abituato a vedersi
nei panni dell’accusatore, presto si sentì ridicolo. Tornò alla sua scrivania e
tutto sembrò perdere di significato. Evitò di chiedere scusa, anche se una
parte di lui blandamente lo esigeva. Alla fine delle quattro ore pomeridiane,
prese le sue cose e se ne andò senza salutare nessuno, scuro in volto e vistosamente
pensieroso.
Era il 14 Febbraio, qualcuno se
ne ricorda ancora per questo. Preso dallo sconforto di quella brutta giornata,
per l’ultima volta aveva provato a mandare un messaggio a Luisa. Le aveva
scritto soltanto “Ti Amo” persuaso per un solo istante che quel patetico
richiamo avesse potuto, almeno in quel giorno, fare il miracolo e riportarla
alla ragione. Ma niente, era passata un’ora e non aveva ricevuto risposta.
Quando fu inghiottito da quella
notte normale, al lavoro lo ricordarono così, pensieroso e schivo, ma nessuno
seppe mai che quella sera solo non aveva piatti da lavare.
Aldo Consoli.
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