sabato 9 marzo 2013

Suicidi Squisiti N°5 (Un lunghissimo racconto ma infondo è un libro che vi aspettavate?...)




Si uccise il giorno di San Valentino: 
la sua fidanzata non rispose 
“anch’io” 
al suo ti amo.



Il signor Cultrou lavorava alla società dei telefoni.
Ci lavorava da quanto? Due anni a dicembre. Prima di quello aveva venduto macchine. Poi lo avevano licenziato. Non era riuscito a spiegare quel grosso buco sulla tappezzeria della Sauber rossa che nessuno voleva comprare. Il signor Morelli non lo aveva in gran simpatia, questa era la verità. E l’antipatia era reciproca. Al signor Morelli era necessario sapere che lui fosse un fumatore e che fumasse nelle macchine coi clienti, gli bastava sapere che quel mese non era riuscito a piazzare nemmeno una cazzo di crocetta nella bacheca delle vendite e poco importava quanto ci fosse andato vicino e quante volte il capo famiglia di turno si fosse fatto dissuadere dalla moglie rompicoglioni. Il suo capo voleva toglierselo dalle palle e il buco sulla tappezzeria della Sauber fece il resto. Per quanto ne sapeva Cultrou, quel grosso buco sul sedile posteriore poteva averlo fatto lo stesso Morelli per sbaglio, o il suo protetto, quell’odiosissimo Tonetto che a quanto diceva Morelli, avrebbe venduto ghiaccio ai pinguini.
Claudio Cultrou aveva sessantatre anni, sessantaquattro a marzo. Questo ai telefoni era il terzo lavoro della sua vita. Certamente il peggiore. Quando pensava a se stesso, pensava ad un uomo che non si era saputo gestire. Che si era bruciato presto, senza nemmeno gustarsi il momento in cui stava in cima, in cui stava bene. Per un dato periodo Claudio aveva venduto assicurazioni e ci aveva ricavato bene. Sulle assicurazioni puoi stare certo, ci puoi credere. Lui stesso ne aveva avute diverse. Macchina, casa e persino su se stesso. Anche adesso che aveva venduto casa e macchina, non gli restava che la sua vita e il suo corpo, ma se lo teneva assicurato. Le assicurazioni puntano tutto sulla fine, una fine più o meno improvvisa, e la fine è una cosa su cui puoi star certo, su cui ti puoi tenere forte.
Non vedeva sua figlia da anni, ma un giorno sarebbe stata contenta di sapere che nonostante tutto suo padre aveva pensato a lei. Al suo futuro. Il lavoro alle assicurazioni lo aveva mollato dopo aver perso la testa per Luisa: La ragazza del bar sotto casa. Claudio Cultrou si era diplomato a stento e si era messo a lavorare giovanissimo. Appena maturato il primo pensionamento aveva pensato di dedicare la sua vita al nuovo amore e magari aprire un’attività sua, un bar o qualcosa del genere. Non gli erano mai piaciuti troppo i capi e all’altezza dei cinquanta pensò di essere pronto per il grande passo. Bionda e con gli occhiali, bramata dai clienti: Luisa. Fortuna che non si erano sposati. Dio solo sa se anche stavolta non lo avrebbe voluto, ma lei si era sempre divincolata all’ultimo, forse sapeva fin dall’inizio che non sarebbe durata e che un giorno avrebbe deciso di sistemarsi da sua sorella a Catania. L’ex moglie di Cultrou se n’era scappata in Svizzera con la loro figlia Dora e lui non le aveva più riviste. Mai più. Non ci soffriva. Delle sue storie d’amore non restava traccia, di nessun tipo. Il bar non lo aveva più aperto e Mary era scappata da un giorno all’altro senza nemmeno scrivergli perché. Della sua ex moglie aveva dei ricordi e se Dora era ovviamente una traccia di ciò che c’era stato tra loro, erano passati così tanti anni che nemmeno sapeva più che faccia avessero, tutt’e due.
Così, senza tracce, certe volte lui stesso dubitava della sua storia, di quello che aveva fatto. Da dove veniva Claudio Cultrou?
Ritorno e buio, caduta lenta e stanca, piombo, cielo, autobus, ora sto camminando, pensò. 
Sui sessanta non aveva più grosse aspettative. Lavorava come venditore di vino in un call center, come i ragazzini. I suo colleghi avevano venti, venticinque anni. Era il più vecchio della squadra, più vecchio di tutti i suoi capi. Troppo vecchio per sentirsi rimproverare per una crocetta messa qui piuttosto che là, troppo vecchio per qualsiasi rimprovero che non venisse da dentro al suo stesso cuore.
Niente di particolare, a casa non lo aspettava nessuno e si lasciava i piatti da lavare la sera per sentirsi utile. Si dice, non rimandare a domani quello che puoi fare oggi. Non rimandare a domani. Se lo facessi, pensava Cultrou, cosa avrei da fare domani?
Cosa avrei da vivere domani?
E poi fare i piatti gli era sempre piaciuto, lo rilassava. Il suo lavoro lo faceva sentire un ladro. Chi lo aveva assunto era a sua volta un ladro e un bugiardo. Gente cresciuta nel telemarketing. Una lingua affinata per beffare. Era sempre come se ogni singola frase nascondesse una postilla che ti mostravano facendo in modo che tu non ci facessi caso. Tutta la loro vita era vendere. Vendevano illusioni quando ti dicevano che quel lavoro offriva buone prospettive di guadagno, vendevano aria quando ti dicevano che quello era il miglior call center del pianeta. Era sempre vendere, anche a se stessi, allo specchio, prendere il pullman e andare a spiegare, ogni giorno sempre uguale, a un nuovo arrivato che vendere vino  si riduce solo a una questione di  numeri. Claudio Cultrou non era un umanista, ma pensava spesso che se vuoi vedere gli esseri umani, se vuoi vedere di cosa sono capaci, li devi vedere mentre vendono e comprano. Certi venditori userebbero qualsiasi argomento, dal sesso al sangue. Vendere è riuscire, è come se tutti fossero dei cavalli scalpitanti nella gabbie alla partenza. Cavalli alti, cavalli bassi, cavalli vecchi, cavalli esperti, giovani. Tutti in gara, vincere, vendere, è come se nella testa si sprigionasse una qualche chimica piacevole. Una chimica di cui ti convinci, che ti serve,  tanto quanto l’assegno che ricevi alla fine delle quattro settimane, ti serve per alzare quella cornetta che dopo tre ore di non fatturato pesa come una clava.
Era due anni che faceva questa cosa che lo ripugnava. Dopo aver venduto assicurazioni per una vita. Dopo aver avuto clienti affezionati, che si fidavano di lui, che lo rispettavano, che a natale lo ringraziavano con una buona bottiglia di grappa, o con un cesto di dolciumi. Gente per cui era il signor Cultrou.
Claudio era un sentimentale, un fatalista. Accettava le cose della vita, anche le brutte. Sapeva arrendersi, aveva il senso della sconfitta e la capacità di imparare ogni volta che succedeva. Volgendo lo  sguardo si vedeva come un pugile. Uno di media gloria che ha anche avuto la sua occasione. Aveva fatto il suo tempo e nessuno se ne ricordava. Sapeva consolarsi delle sciagure altrui, pochi, del resto, si ricordavano di La Motta, o di Oskar De La Hoya.
Non era mai stato un Cassius Clay, e non serbava rancore. Quando era stato lui a colpire, la vita aveva saputo incassare; ora toccava a lui. Era inutile ascoltare i consigli e detergere le ferite, aprirgli l’occhio, il combattimento era destinato a finir male. A poco a poco annegava, boccata a boccata, annegava. Si accendeva le futura al lavoro, anche se non si poteva. E che gli venisse pure il cancro, e che venisse ai suoi colleghi. Lì non licenziavano mai nessuno. Erano scaltri, era un viavai di giovanotti senza volto, troppi mollavano prima della fine del mese, colavano a picco appesi lungo il filo del telefono. Per tutti era solo un lavoretto di passaggio. Ti lavoravano piano coi loro non ti preoccupare e ma certamente, i può succedere, i può succedere ma che non riaccada, non riaccada mai più.
Claudio Cultrou non poteva sapere che nel millenovecentonovantaquattro lavare i piatti gli avrebbe quasi salvato la vita. Era così depresso per la storia di Luisa che aveva proprio deciso di farla finita. Gli venne un’ansia brutta, di sabato pomeriggio. D’un tratto  si sentì così ossessionato dai rumori di partita e macchine che provenivano dalla strada che aveva deciso di buttarcisi dentro, di tuffarsi sporcando l’asfalto. Tutto perché lei si sentisse in colpa. Così andò in camera sua e si vestì. Tutto sommato era comunque uscire. Siccome nella sua vita aveva sempre odiato che qualcuno potesse dargli del vecchio rimbambito, si era sempre curato molto. Non si era mai permesso il lusso di trascurarsi, di uscire in disordine, nemmeno sul pianerottolo. Così persino per suicidarsi decise di darsi una ripulita. Vestito, mentre si dirigeva verso il balcone, vide i piatti sporchi nel lavandino. L’unica spiegazione che Claudio Cultrou riesce a dare per quanto successe è che forse non voleva farlo, non con tutto se stesso, almeno. E così si fermò, aprì il rubinetto dell’acqua calda e non si uccise più, non in quel momento almeno. Fu come un ripensamento, come uno scordarsi di tutte le cose per cui prima sembrava valerne la pena. Si stava rilassando. Non gli era mai dispiaciuto farlo, e questo era sempre sembrato strano a Luisa. Era un uomo strano, mai veramente burbero, mai veramente capace di mostrare cattiveria. A Luisa non era mai capitato un uomo come Cultrou.
Aveva occhi celesti, alto e magro, con un certo fascino da uomo distinto. Lo aveva amato, sicuramente, nonostante tutto. Il problema era stato che lei non aveva mai veramente capito quanto facesse parte della sua vita. Un uomo cresciuto senza padre, a casa di certi zii, che di tanto in tanto sembrava nascondersi in spazi di siderale freddura. Una padre scomparso nella notte, quando lui era molto piccolo, ucciso dai partigiani per motivi non legati in nessun modo alla politica. Una deportazione a cui non aveva assistito, ma che attraverso i continui racconti aveva influito sul suo carattere. Claudio Cultrou era mezzo francese. Non aveva studiato molto. Si era messo subito a vendere. Vendere è una cosa che ti svuota, forse perché si ha a che fare con le cose. Quando pensava a se stesso, quando rimuginava sulle sue competenze, Cultrou si ritrovava un pugno di mosche. Quello che davvero aveva imparato è che gli uomini non cercano fama e fortuna, cercano invece quell’aria d’importanza dovuta ad una particolare competenza che viene loro universalmente riconosciuta e per la quale ricevono la giusta fama e la giusta fortuna. Questa è la realizzazione. Cultrou sarebbe pure potuto essere ricco, ma cosa sapeva fare lui? Cosa aveva imparato a fare in tutti quegli anni? Niente di niente. Non aveva fatto niente che fosse destinato a restare. Vendere non porta al restare, anche se diventi particolarmente ricco, perché vendere è disfarsi delle cose. È essere un tramite per attivare un trasporto di oggetti. Tramutarli in soldi. Anche quando vendeva assicurazioni era la stessa identica cosa. Vendere vino, oro o sicurezza e speranza, è la stessa cosa. E’ niente. Per se non gli restava che il suo corpo, che a dirla tutta certe volte nemmeno sentiva davvero suo. I lunghi piedi, le mani nodose e quegli occhi da Cultrou che non aveva mai saputo usare con le donne. Ricordava la casa dello zio come una specie di comune, oltre a lui e sua madre c’erano altre sei persone. Lì si sentì sempre un rifugiato. Non per colpa loro, ma per colpa sua. Aveva inghiottito rabbia perché pensava che la pacatezza fosse sintomo di maturità. Alla fine aveva perso il senso genuino per la rabbia. Capiva che era strano e certe volte fingeva di arrabbiarsi, ma lo faceva per le cose sbagliate e poi si vedeva che non c’era da prenderlo troppo sul serio. La rabbia non era un sentimento che gli si addiceva. Per Cultrou c’era sempre pronta la malinconia, l’amarezza e il rimpianto. Questi erano sentimenti che davvero erano capaci di rapirlo, che lui conosceva bene, che sapeva assaporare. Sapeva come sentirli fino in fondo. Ormai si era rassegnato a finire i suoi giorni nella società dei telefoni, anche se non sopportava la sua vicina di scrivania. Questa prediligeva l’approccio sessuale. A pensarci, utilizzava la stessa tattica di tutte le pubblicità del mondo. Il sesso fa vendere, questa non è una novità. E lei vendeva più di Cultrou. Non riusciva a sopportarla. Non era quello che faceva, era il modo. Quel suo accento romagnolo, quel suo modo di  fare la porca ad alta voce. Come faceva a non imbarazzarsi. Non gli riusciva di non trovarla ridicola. Contattava solo clienti maschi e molti ci cascavano. Quel giorno  Cultrou era stato ripreso alquanto duramente dal suo direttore di reparto per una questione di crocette. Bisognava compilare un foglio giallo alla fine di ogni telefonata, separando i contatti utili da quelli inutili. Cultrou aveva cercato di spiegare le sue ragioni, ma quel pezzo di merda lo guardava come se fosse un vecchio rincoglionito. Non era facile alla rabbia, ma non sopportava che gli si desse del rimbambito. Aveva trattenuto la rabbia come sempre mentre lo sgridavano e non era riuscito a dare la sua versione. Non aveva più l’età per certe cose, non era più un bamboccio e non poteva sopportare i rimproveri, da nessuno. Così quando dopo qualche minuto che aveva passato a rimuginare, sorprese la sua odiata collega ad imbrogliare nella selezione delle schede, non gli riuscì di calibrare le sue emozioni ed esplose. Le scaraventò addosso tutta la frustrazione che aveva accumulato prima. Sapeva che dopo se ne sarebbe pentito, ma infierì. Dopo tutto i suoi metodi di approccio non erano meno imbarazzanti di quell’altro che ricattava psicologicamente i clienti dicendo che se non compravano da lui sarebbe finito in mezzo a una strada, che se loro non bevevano lui non mangiava. Eppure era lei che aveva a tiro e su di lei colpì. Ripensandoci a casa, Cultrou si sorprese della scarsa reazione della ragazza, quasi sibilò un come si permette, ma senza aggiungere altro. Fu una frase che le sfuggì, quasi per scusarsi, lui le aveva dato della puttana e lei era rimasta immobile, freddata, lo disse con una remissività che non si addiceva alle circostanze. Era come se avesse recitato una battuta in cui non credeva. Di cui non era convinta. Se lei avesse reagito con la giusta veemenza, Cultrou si sarebbe ritirato nel suo guscio e forse si sarebbe dato per vinto. Tanto si sentiva più forte e nel giusto, quanto lei si mostrava debole. Alla fine si stancò e non essendo abituato a vedersi nei panni dell’accusatore, presto si sentì ridicolo. Tornò alla sua scrivania e tutto sembrò perdere di significato. Evitò di chiedere scusa, anche se una parte di lui blandamente lo esigeva. Alla fine delle quattro ore pomeridiane, prese le sue cose e se ne andò senza salutare nessuno, scuro in volto e vistosamente pensieroso.
Era il 14 Febbraio, qualcuno se ne ricorda ancora per questo. Preso dallo sconforto di quella brutta giornata, per l’ultima volta aveva provato a mandare un messaggio a Luisa. Le aveva scritto soltanto “Ti Amo” persuaso per un solo istante che quel patetico richiamo avesse potuto, almeno in quel giorno, fare il miracolo e riportarla alla ragione. Ma niente, era passata un’ora e non aveva ricevuto risposta.
Quando fu inghiottito da quella notte normale, al lavoro lo ricordarono così, pensieroso e schivo, ma nessuno seppe mai che quella sera solo non aveva piatti da lavare.

Aldo Consoli.

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