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E
potevi essere abbastanza fortunato da sentirlo suonare una di quelle notti. Lo
vedevi rincorrere uno sgabello, scalarlo a fatica, riprendersi con un altro rum
e prendere la chitarra. E poi quella musica… quella che Bill suonava, nuova
ogni volta, sconosciuta, ma che a tutti sembrava appartenere, si intrometteva
tra bicchieri e voci e tormenti di un mondo in caos. Quelle note sapevano di
antico, di un mondo perduto e di rimpianto. Quelle note erano rimpianto! E
tutti rimanevano in silenzio a rendersi conto di aspettarle da sempre, quanto
la verità. Le dita giovani più di lui arrivavano senza fatica ovunque le note
sembravano già aspettarle. Così proseguiva fino all’ultima di quelle note
passate come un respiro o un battito di cuore. Era naturale quella musica e
vera, era ordine e lui sembrava afferrarsi ad esso e noi con lui. L’afferrava
le note, per salvarsi, quello era il suo modo di suonare e lui era il migliore
perché nessuno al mondo sembrava precipitare più di lui e noi restavamo in
silenzio perché era l’unica cosa che avevamo da offrire, il silenzio. Alla fine non te la sentivi nemmeno di
applaudire, meglio lasciarla svanire quella musica, meglio dimenticarla che
rimpiangerla. Meglio che qualcuno ritornasse a parlare allora, e qualcun altro
ad ascoltare, meglio la vita, che sarebbe comunque arrivata a chiamarci tutti,
prima o poi. Meglio la vita, perché non potrà mai assomigliargli il mondo a
quella musica. Meglio Bill, che la sua musica.
-a
cosa pensi mentre suoni?
-a
muovere le dita nel modo giusto.
Nient’altro
mi rispose. Lui…Bill... Ma non ci fu tempo di rimanere delusi, un altro giro! Un
saluto, un fondo, lei che ti guarda, qualcuno che balla, un ragazzo a terra,
qualcuno ti scansa, prima lo scontrino! Un abbraccio, una scollatura, piacere,
lei ti guarda ancora, la birra ti congela la mano, per me era fuorigioco, ciao
come stai? Domani parto, ma che fine hai fatto? E quando Homer, Luca! Parigi,
domani, l’aereonautica, auguri, salute! No faccio io, lei…
-
Hey Bill, raccontaci del Sudamerica.
Tanerc
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